IL BRANCO

Non ce ne vogliano i redattori, chiaramente incolpevoli, ma provate a riprendere in mano un numero della buonanima Punkster. Sfogliatelo, e dite se non si potrebbe rimescolare il 90% delle immagini promozionali dei gruppi senza influire sul risultato finale. Davvero, non vi sembrano ragazzi tutti uguali in foto tutte uguali? Sempre uno di fianco all’altro, quasi sempre dal torace in su. Tutti seri, tutti con la loro brava combinazione di frangetta nera, maglietta nera e tatuaggi. Quello bello, quello bello particolare, quello brutto, quello ciccione e una minoranza etnica a caso.
Riuscite a distinguere una band dall’altra? Persino i nomi si confondono nel loro apparente rispondere a regole precise, tanto che in rete abbondano gli emo band name generator che della cosa si prendono allegramente gioco. Da ridere, da piangere. Perché senza bisogno di fornire prove documentate ed entrare nei dettagli, cosa difficile e spesso fuorviante, è l’impressione generale che il tutto fornisce ad essere significativa. Un’impressione di povertà, banalità e orizzonti limitati raramente data con altrettanta chiarezza dalla scena punk nei suoi tre decenni di storia. Forse solo intorno al secondo album degli Exploited, o ai raduni old school nazi-oratoriali di Busto Arsizio. Un’impressione di perdita di significato ormai totale della parola punk - o del suo ribaltamento, o della sua definitiva frantumazione - della quale non resta che prendere atto.

Voi direte: sono i testi e la musica a contare, non l’apparenza. Ma sappiamo che non è vero, o non del tutto. Per quanto il sottoscritto abbia sempre considerato il punk come affare di sostanza, e su questa considerazione abbia tenacemente fondato la sua appartenenza al movimento in senso lato, il punk da quando è nato è stato anche estetica. Per molti, è stato soprattutto estetica. Non tanto nel senso di mera apparenza, quanto in quello più puro e positivo di dichiarazione d’intenti totale, di attitudine espressa a 360° che con testi e musica per forza di cose interagiva pesantemente. Spesso addirittura precedendoli: i Clash adottano ben prima di Sandinista! abbigliamento ed accessori da guerriglieri terzomondisti.
Ma a ben vedere succede quasi sempre così, o peggio. Per dirne una: Bobby sente dentro di sé l’irrefrenabile bisogno di cantare di birra, risse e pallone e quindi si rasa i capelli e calza gli anfibi? Oppure Bobby vede i Business e decide che vuole essere così, e quando forma un gruppo il cantare di birra, risse e pallone è scontato? David sente dentro di sé l’irrefrenabile bisogno di cantare di capitalismo, inquinamento e guerra e quindi si fa i dread e smette di lavarsi? Oppure David vede i Discharge e decide che vuole essere così, e quando forma un gruppo il cantare di capitalismo, inquinamento e guerra è scontato? Perché? Non capita solo nel punk, ci mancherebbe: perché sono così pochi i rapper vestiti da rapper che non parlano (solo) di figa, droga e hip-hop? Oppure, perché sono così pochi i rapper che parlano (solo) di figa, droga e hip-hop ma non si vestitono da rapper? Perché personalità e originalità sono da sempre minoranza. Perché per prima cosa si sceglie la cultura più ganza sul mercato e per seconda si cerca di aderirvi il più possibile. Perché nel branco si sta più sicuri.

Ma quando tutto ciò capita alla cosa che più di tutte ha significato, e per molti ancora significa, uscire dal branco e celebrare la vittoria dell’individualità… beh, la crepa è evidente. L’uniformità estetica diffusa promette piattezza in quantità, ed è essa stessa già figlia della piattezza. Ne sarà la causa o ne è già l’effetto? Causa o effetto, o entrambi, di uno spostamento ai limiti del ribaltamento, si diceva. Nel punk, da sempre, l’individualità che trova finalmente modo di affermarsi come degna e meravigliosa è quella del perdente, del nerd, dello sfigato, dello strano. Di quello che a scuola se le prendeva. Un po’ di anni fa, una penna arguta e lungimirante scrisse su Flipside: “Quando andavo alle superiori io, ti picchiavano se eri un punk. Oggi, ti picchiano se non sei un punk.” Iperbolico, ma chiaro.
L’impressione è che il punk da classifica più nuovo - quello prodotto da generazioni arrivate all’adolescenza quando il punk aveva ormai smesso di essere una scelta rischiosa - sia sostanzialmente roba da vincenti. Che la sua presunta valenza ribelle sia facciata, pura replica opportunistica di formule di successo che ormai non spaventano i nonni, figuriamoci i padri del midwest chiamati a decidere se fare uscire o no la figlia con quel ragazzo con la cintura borchiata e il teschio sulla maglietta. Che magari vota pure repubblicano e il suo bravo stupro di gruppo con i compagni della squadra di football non se l’è negato, ma è così popolare al liceo.

Altra cosa è l’effettiva bontà dei gruppi se estratti dal contesto, con il versante melodico e quello metallico come due facce della stessa medaglia, spesso divisi soltanto dall’aspetto meramente musicale ma percepiti dal pubblico (di nuovo l’estetica) come contigui se non intersecati. E con il termine emo che ancora galleggia intorno, di assegnazione sempre dubbia e personalissima. Ce ne sono di validi, e il servizio è qui proprio per presentarveli. Ma quando sotto il palco a pogare arriva persino Cecchetto, ammetterete che qualche domanda è lecito porsela.
Rovistando nel computer, salta fuori una recensione scritta nel 2004 e mai pubblicata, tristemente attuale nel farci da conclusione due anni dopo: “Comincia bene, Ocean Avenue: i risvolti melodici molto Mega City Four di Way Away ben dispongono l’ormai stagionato punk-rocker, ma è un fuoco di paglia. La trovata sembra essere l’aggiunta del violino all’emo-rock più stereotipato, ma l’effetto è solo il sovraccarico di qualcosa già sovraccarico e ridondante per conto suo, e vuoto nel profondo. Nient’altro distingue gli ultimi arrivati Yellowcard dal resto della truppa di quello che ormai, per rispetto verso un luminoso passato, facciamo fatica a chiamare emo. Trattasi dell’equivalente odierno dell’hardcore melodico fatto con lo stampino tanto in voga un lustro fa. Trattasi della musica più conservatrice in circolazione tra quelle alternative: trasgressiva ma non troppo, buoni sentimenti, bravi ragazzi, tatuaggi ma testa sulle spalle, cintura borchiata ma sani valori americani (o italiani, nel caso), nulla di lontanamente riconducibile al punk se non, ironia della sorte, qualcosa nel suono. Il contrario insomma dell’emo come originariamente inteso, la banalizzazione di un sogno, il rock nell’accezione meno attraente del termine. Cartellino rosso.”


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