CAT POWER
Puntuali come l’influenza, le reazioni che suscita in colleghi e conoscenti la notizia di una tua imminente intervista con Chan Marshall sono quasi tutte riassumibili con un’unica espressione vagamente locale: “Minchia, auguri”. C’è di peggio, ma la ragazza ha fama di soggetto umorale, nervoso, restìo alla comunicazione. Scostante con la stampa come sul palco. E se già sei un po’ in ansia di tuo - perché un po’ lo sei sempre, e perché in ogni nuova foto che vedi lei sembra più bella - così rischi davvero di partire con il piede sbagliato. Allora ti rimetti nuovamente all’ascolto di The Greatest e ti ripeti che deve essere il solito luogo comune, come Meg White che non sa suonare e Ian MacKaye che non ride mai. E che l’essere umano responsabile di un album così sereno e adulto non può essere sul serio il porcospino lunatico ed inaffidabile di cui sopra. Stessimo parlando della ragazza tormentata di Moon Pix e di quel bello quanto difficile album di cover. O di quella di un dvd con lei ripresa da lontano che abbozza canzoni in mezzo a un prato, e in allegato un cd con un solo pezzo di venti minuti.
Ma The Greatest suona come il lavoro di una donna che ha piena coscienza di sé stessa, maturo nelle liriche e sorprendentemente caldo nei suoni. Un ritorno a casa nel sud statunitense dal quale proviene - se davvero da qualche posto Chan Marshall proviene e a qualche posto è assimilabile - in forma di country-soul quasi al limite delle scelte editoriali di questa testata, sul quale lei si posa con fare da diva e sicurezza da grandi numeri. Come una versione americana della migliore Beth Orton. Che con le soglie di attenzione che ci ritroviamo oggi equivale grossosmodo a dire “una versione americana della migliore Maria Callas”, tranne che per il sottoscritto e altri dieci o dodici. Ma in ogni caso, no: l’artefice di queste note e queste parole non può essere come dicono, forza.
E in effetti, quando la incontri faccia a faccia appare tranquilla, gentile, premurosa. Energetica e spigliata, con una lattina di orribile energy drink in mano e nessun segno di cedimento. Poi l’aggeggio che registra si accende, le domande cominciano e lei scivola in un concentrato di insicurezza, confusione, tensione latente e frasi spezzate. Che non diventa mai ostile, ci mancherebbe, e che anzi sembra creare decisamente più problemi a lei che a chi le sta di fronte. Le chiedi l’origine del suo nome, e ti spiega che il padre si chiama Charly, che quando è nata lui non era presente e sua madre amandolo molto decise di chiamarla Charlyn, e che lei ha solo tolto “rly” dal nome. Il tutto, scrivendo al contrario direttamente sul tuo taccuino il nome completo, sottolineandone la porzione paterna ed elininando successivamente le lettere di troppo. In scioltezza, come in un filmato didattico.
Potenza del fetido drink rosso? Stress da giornata promozionale? Carattere? “Non volevo fare nessun servizio fotografico o intervista, ma c’è sempre una persona o due che… sai, si aggiunge della gente e si crea questa specie di ragnatela. Penso che non necessariamente la gente imparerà qualcosa leggendo delle interviste, ma magari qualcuno potrà identificarsi ed evitare di sentirsi solo. E questa è la parte utile del fare interviste”. Certo, è molto più bello e fruttuoso quando incontri i musicisti in maniera più informale, al di fuori delle mezze ore prestabilite. Andarci insieme per negozi o per concerti. Ma purtroppo non succede quasi mai. E se a uno non piace parlare della propria musica le cose rischiano di farsi nebulose, come quando chiedi alla signorina cosa avesse in mente scrivendo e registrando questo nuovo album, e se ci sia un tema o un qualcosa a legare insieme le sue dodici canzoni: “Penso ci sia sempre stato un tema. O forse neanche un tema vero e proprio, ma penso di esser sempre stata una theme person per quanto riguarda la mia espressione e la mia musica. Tutte le canzoni hanno sempre avuto lo stesso tipo di energia, lo stesso tipo di pensiero. Penso”.
Certo The Greatest suona molto organico e coeso. Ed ha un suono piuttosto diverso dai dischi precedenti… “Mi vesto diversamente da come mi vestivo quando avevo diciannove anni, ho mangiato cibo diverso, ho letto libri diversi, sono stata in posti diversi, ho incontrato gente diversa, ho avuto esperienze e interazioni diverse, ho fatto sogni diversi, ho visto film diversi, ho letto giornali diversi. Tutto questo ha avuto un effetto sulla mia vita. Lo ha sulla vita di ognuno. E di certo sulla mia, quando sto creando, ha un effetto chi sono e come sono in quel momento. Tempo ed esperienza. Tempo ed esperienza. Esperienza. È la più grossa differenza… ehm… ahm… ehm… ehm… differenze… la differenza è…”. Difficile insomma rubarle qualcosa di più e di meglio, parlando del disco e del suo rapporto con i predecessori. Di continuità e discontinuità. Lei va in sbattimento e non capisce del tutto la domanda, tu fatichi a capire qualcosa nel borbottare esitante che segue e cerchi di tranquillizzarla. Si può anche non rispondere, Charlyn. “È una domanda dura a cui rispondere, è vaga… la differenza è uno studio diverso, una città diversa, musicisti diversi, esperienze diverse. Da qui a un anno ascoltandolo non ci ricorderemo più quali sono le differenze, e non riesco a metterlo in parole… sfortunatamente”.
Non va meglio passando ad argomenti più squisitamente musicali, come la produzione così raffinata e classica dell’album. Avendo letto in numerose interviste della sua assoluta refrattarietà ai produttori, le chiedi se ha fatto da sola. Lei annuisce con un verso, e subito dopo tace. Come per sfida, o in attesa di commenti dal giornalista. Poi ride: “Non so come mai sia così difficile per tutti ogni volta crederci!”. Dai, su. Non si voleva dire quello. Lo si chiedeva per pura informazione. C’era un tipo di suono specifico in mente? “Mmmh… ehm… Mmmh… No. Che tipo di suono stavo cercando… volevo registrarlo, volevo ci fossero degli archi e… le canzoni, amico! Questo volevo registrare!”. È il momento dell’unico piccolo attrito in tutta l’intervista, e se la domanda seguente voleva riportare il sereno un po’ ci riesce, ma ciò che ottieni in cambio è un flusso di concetti iniziati e lasciati lì davvero difficili da interpretare.
In ogni caso: registrato ai celeberrimi studi Ardent di Memphis, The Greatest suona profondamente soul. A tratti pare di stare in uno dei due meravigliosi volumi della raccolta Country Got Soul, bianchi del sud col cuore nero, rhythm’n’blues con gli occhi azzurri nell’America segregata dei sessanta. Chan ama il soul, vero? “Sì, ho sempre avuto… di nuovo, con l’esperienza, con gli strumenti, siano una chitarra, un piano o una voce… la prima volta che ho registrato, ed ho sperimentato il registrare con altra gente in uno studio, c’è sempre un po’ di inibizione…”. Ancora qualche borbottio indistinto e poi, all’improvviso: “Ma sì! Oh, sì! Certo, è così ovvio quali siano i grandi, gli album che ho amato. Sono i dischi che ascoltava mio padre, ed essendo del sud… la musica che ascoltava mia nonna… è ovvia, la musica che amo. Che ho sempre amato”. E cosa le piace del soul? Cosa lo rende così importante? “È qualcosa di importante per chiunque lo abbia mai ascoltato, e amato. È musica che rappresenta delle fondamenta alle quali si guarda ancora oggi. Arriva tutto da qualche parte… è parte della nostra storia collettiva… “.
Deve essere stato molto interessante allora lavorare a Memphis, la capitale del soul sudista, insieme a un team di musicisti locali a cinque stelle (Teenie Hodges, chitarrista di Al Green, e poi Leroy “Flick” Hodges e David Smith al basso, Rick Steff all’organo, Jim Spake al sax e Scott Thompson alla tromba)… “Ho vissuto a Memphis quando ero piccola, e ho registrato a Memphis il mio primo album per Matador, What Would the Community Think. Volevo registrare lì perché i musicisti che avevo in mente vivono lì, e non volevo tirarli fuori dal loro ambiente. Non sono giovanissimi, hanno mogli, figli e nipoti. Per questo ho scelto Memphis, per i musicisti”. Ma è un posto dove si sente l’eredita di tutta la grande musica che proprio lì è stata prodotta? O meglio, il disco sarebbe stato diverso registrato altrove? “Non lo so, non ne ho idea perché non è successo. Ma le energie grazie alle quali quei dischi sono stati fatti non esistono più, i posti dove quei dischi sono stati fatti sono cambiati, alcuni non esistono nemmeno più. Fortunatamente parte di quelle persone sono ancora vive, e tutti quei dischi ancora esistono, e questo è quello che quelle persone hanno fatto… capita, così va la musica. I giovani di oggi potranno essere in grado di amare quella musica”. Afferrato il concetto, più o meno. Se dovessimo fare dei nomi? ”La prima roba di James Brown… ma anche cose che vanno oltre, Bessie Smith… ci sono molte cose differenti. È musica della gente, non musica del computer. Musica viva, cuore e anima. Intrecci sonori davvero umani, fisicità umana. Quella musica ha una fisicità”.
E fin qui si è parlato delle sette note. Che nell’impressione generale avranno sicuramente il loro peso, ma pare comunque di sentire anche una donna più serena, rilassata. Nuova, forte, potente. “Non sono sicura che sia vero, le differenze nella mia personalità e nella mia spiritualità rispetto a quando avevo diciannove anni… sono sempre la stessa persona, ma le esperienze si rifletteranno in tutto quello che faccio, si rifletteranno in tutto quello che faccio. È la mia crescita, capisci? Anche se fossi un pittore, confrontando i miei lavori di adesso e quelli precedenti vedresti…”. Certo. Ma da You Are Free in qua si nota molta più confidenza. Un pezzo come Empty Shell, per esempio, ha un testo che letto da solo è piuttosto triste, ma ascoltato ha una serenità enorme, una sorta di ironia e di ricerca del lato positivo delle cose. L’autocommiserazione e la disgrazia che diventano forza e certezza del potercela fare, dopotutto.
Viene in mente tanto soul femminile dei sessanta, nomi come Doris Duke o Candi Staton… “Non le conosco. Ma è proprio così: lo è, ironica. L’ho scritta tre anni, tre anni e mezzo fa. L’ho scritta a Londra durante il primo tour di You Are Free, io e l’amore della mia vita avevamo appena avuto una separazione piuttosto tumultuosa. Ero stata privata di lui, la nostra relazione era finita. L’amore della mia vita. Dopo il soundcheck, o prima del soundcheck, l’ho scritta. Lì. Perché siamo tutti umani, ed era un periodo davvero scuro. Ma attraverso il suonarla dal vivo per tre anni, fino a quando non l’ho registrata l’estate scorsa, è diventata qualcosa di diverso. È diventata un mio trionfo sulla canzone stessa. Non che il sentimento che l’ha fatta nascere se ne sia andato, ma il tempo è passato, ed è stato per me un periodo di guarigione. Sono guarita. È così, grazie al cielo! Se avessi registrato la canzone allora, suonerebbe molto diversa”.
Allo stesso tempo, canzoni come Could We suonano invece molto felici. Si tratta di materiale più recente? “Sì, Could We è stata scritta circa un anno dopo la separazione, e racconta di quella che è più o meno stata la mia prima vera esperienza di dating, di uscire con qualcuno”. Per la prima volta nella tua vita? “…sì. Era primavera, avevo una cotta e questa cotta aveva una cotta per me. Bello no? Ma di nuovo, è stata scritta un paio di anni prima di essere registrata, e parte di quella gioia non è più nella canzone, perché il tempo passa, e noi cambiamo costantemente”. Altra materia che pare cambiare costantemente è ciò che Cat Power riesce (o non riesce) a fare dal vivo. Non l’hai mai vista in concerto, ma da quello che hai letto o ti hanno raccontato Chan ha un rapporto particolare con il palco. Non facile, a voler stare sul vago e dire poco. Si narra di show interrotti dopo pochi minuti, crisi di pianto, livello alcoolico sostenuto, deliri assortiti.
Che succede in quei momenti? “Ogni volta è diverso, dipende da… ci sono così tanti fattori coinvolti… il vero scopo di ogni show è riuscire a concentrarsi soltanto sulle canzoni. Quello è lo scopo. Ma possono esserci tante distrazioni: problemi di suono, problemi di luci, problemi di pubblico, problemi della mia mente, problemi di salute, problemi di strumentazione. Non si sa mai come sarà un concerto, mai”. Resa l’idea? Basta una qualunque di queste cose, o un’altra a caso, e va tutto all’aria. La concentrazione e la serata. In scala molto più piccola, hai l’impressione che succeda lo stesso anche nelle interviste. Ma se lo ricorda il suo primo concerto? “Certo, è stato grande! Eravamo in cinque, tutti amici, e il gruppo di un altro nostro amico suonava dopo di noi, questa band di Atlanta chiamata Magic Bone. Era la loro festa. Anche nel pubblico erano tutti nostri amici, una quarantina di persone, una piccola comunità di persone. Due miei amici che suonarono con me quella sera non sono più tra noi… ma il solo ricordo di loro, delle nostre chitarre che si facevano la guerra… è stato divertentissimo, è stato un momento bellissimo”. La cosa si chiamava già Cat Power? È stato Cat Power fin dall’inizio?”Sì, Cat Power”.
Da allora, l’ascesa che tutti conosciamo. E tour, tantissimi tour. E una ormai celebre mancanza di vere e proprie radici a cui ritornare. “Ho un paio di posti dove posso andare quando ho del tempo libero: la mia piccola casa grande come questa stanza nella Lower East Side di New York, o Miami, dove la mia migliore amica delle superiori vive con sua figlia e sua mamma. Ma non vivo da nessuna parte in realtà, non ho una vera e propria casa”. Fermarsi da qualche parte, un giorno? “Sarebbe bellissimo. Succederà, perché un giorno la mia psiche si ribellerà e dira ‘non posso continuare a spostarmi, non posso più andare da nessuna parte’. O magari perché troverò l’amore. Saranno le uniche due cose che mi faranno fermare. E non so se continuerò a fare musica, allora. È già successo, quando avevo venticinque anni mi sono fermata per un anno. Il mio cervello lo esigeva. Mi sono fermata e il mio cervello dopo un po’ mi ha detto ‘Ok, ripartiamo’. Dovevo trovare la mia pace”.
Che luoghi preferisce nel mondo? “Il deserto, le montagne, il mare. Non importa dove. Qualunque deserto, qualunque montagna, qualunque mare. Una città dove mi piacerebbe abitare? Marrakesh, non ci sono mai stata… o qualche posto in Brasile dove non sono mai stata, magari. O qualche posto in campagna in Cina. Qualche posto dove non sono mai stata. I posti che ho visto in tour e dove mi sarebbe piaciuto ritornare sono così tanti, ma nessuno spicca in maniera significativa. Potrei vivere ovunque, sai? E questo rende le cose difficili se cerchi un posto in cui stabilirti e mettere radici. Comunque, qualche posto vicino al deserto, alle montagne e al mare”.
E nei periodi in cui la musica non la porta a Milano o chissà dove? Quando ha qualche giorno libero o qualcosa di più di qualche giorno? “Di solito è solo qualche giorno. Il massimo è sui cinque, sei o sette. Mi piace leggere, andare a vedere dei film, cenare con gli amici, camminare all’aria aperta, cucinare… cose normali che fanno tutti”. Cucinare cosa? “Cibo. Non ho specialità”. Leggere cosa? “Nell’ultimo anno ho letto molto Haruki Murakami. No, Tokyo Blues non l’ho letto, ma lo leggerò presto. Ho la tendenza a cominciare con un autore e, se mi piace, a continuare con ogni altro suo libro reperibile. Ma non ho tutto questo tempo… è buffo perché viaggiando così tanto e con tutto questo tempo da sola, riesco a leggere solo quando ho tempo da sola ma non sto viaggiando. Quando viaggio in continuazione odio leggere”. Concerti? “No, di solito no. Sono andata a vedere Bob Dylan la scorsa settimana a Parigi, e mi è bastato. Sono così contenta di esserci andata! L’ho visto tante volte, questa deve essere stata l’ottava o la nona, ed è stato sempre diverso. Sempre grande. Sempre commovente”. Musicisti suoi contemporanei che ammira? “I White Stripes, che ho visto live per la prima volta un paio di anni fa, fantastici. O Antony And The Johnsons. Non li ho visti come gruppo, ho solo visto Antony cantare due volte, una con Lou Reed e una a un concerto tributo a Neil Young a Brooklyn, dove ha fatto A Man Needs a Maid. Sono gli unici che mi vengono in mente”. Giusto il tempo per un accenno alla sua recente collaborazione con Prince Paul e Dan Nakamura per l’ultimo album dei due come Handsome Boy Modeling School, e ad eventuali svolte moderne in arrivo dopo l’ottima I’ve Been Thinking (“Ho conosciuto Dan a un karaoke party di amici comuni. Non ho programmi di nessun genere, ma è stato bello lavorare con loro in quell’area, molto facile e groovy. Mi è piaciuto.”), ed è ora di chiudere. Ad aggeggio spento, Chan si congeda con un “Grazie, sei un bravo intervistatore”. E lo consideri abbastanza per porre un bell’omissis sugli effetti collaterali dell’energy drink di cui sopra.
(indietro)
|