DANGER MOUSE
Il pericolo è il mio mestiere

“Grande è la confusione sotto il cielo”: dovendo sintetizzare lo stato dell’industria discografica nel 2009, la celebre frase di Mao sembrerebbe appropriata. Confusione che pare l’affanno di un’armata in ritirata, più che la “situazione eccellente” evocata dal Grande Timoniere. Dovendo scegliere invece un uomo che ne simboleggi i travagli degli ultimi tempi, la scelta cadrebbe su Danger Mouse. Chi è? Una delle 75 persone più influenti del ventunesimo secolo, secondo “Esquire”. Uno che, volente o nolente, nei momenti in cui la musica e le sue modalità di fruizione cambiavano c’era sempre, in prima fila. Seguire ciò che ha fatto dal 2004 ad oggi è seguire il filo di un discorso che tocca arte, economia, leggi sul copyright e tecnologia, al suono di musica che combina credibilità artistica e successo commerciale.

Ricordate il tormentone “Crazy”? Sentito in vari spot pubblicitari, ballato ovunque per tutto il 2006 e oltre, era il biglietto da visita di uno strano duo. Formato da un produttore alto, meticcio e ricciolone (Danger Mouse appunto) e da un cantante e rapper piccolo, nero, rotondetto e pelato (Cee-Lo Green). Una strana coppia che si dimostrerà ottimamente assortita, e che nei suoi due album - St. Elsewhere del 2006 e, appunto, The Odd Couple del 2008 - metterà d’accordo critica e pubblico con un pop fresco e accattivante, ma anche originale e colto nel citare influenze afroamericane vecchie (soul, funk, swing) o nuove (hip hop, r&b, dance), e nell’aprirsi al rock o ai grandi compositori del cinema italiano di genere.
Proprio “Crazy” deve la sua struttura a “Nel cimitero di Tucson” di Gianfranco Reverberi, colonna sonora dello spaghetti-western Preparati la bara!. Trainato da un ritornello infallibile e dalla straordinaria versatilità vocale di Green, il brano conquista un primato storico: mai era capitato che una canzone arrivasse in testa alla classifica britannica dei singoli grazie ai soli download legali. Mai al numero uno c’era stato un disco che di fatto non esiste. Sarà il singolo più venduto dell’anno in Gran Bretagna, e non solo: primo in Austria, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda e Svizzera; secondo in Australia, Italia e Stati Uniti; terzo in Belgio, Olanda, Francia e Germania.

Quando tutto ciò succede, però, Brian Joseph Burton non è proprio uno sconosciuto. Nato nel 1977 vicino New York e cresciuto in Georgia, il nostro è infatti già da un paio d’anni un piccolo caso. Nel 2004 ha preso le parti vocali del Black Album del rapper Jay-Z, ha creato nuove basi musicali utilizzando esclusivamente il White Album dei Beatles e ne è uscito con dodici tracce nuove di zecca. Titolo matematico: The Grey Album. Album nero più album bianco uguale album grigio. Un lavoro certosino, pensato per una circolazione limitata e sotterranea. Bello e interessante, ma destinato a lasciare poca traccia se non ci si fosse messo di mezzo un colosso della discografia. Le versioni a cappella di Jay-Z sono uscite ufficialmente, proprio per incoraggiare operazioni di questo tipo. Le canzoni dei Beatles sono invece state utilizzate senza permesso, la EMI – proprietaria del repertorio dei Fab Four, ed evidentemente poco avvezza alla pratica del campionamento creativo – non gradisce e ordina di ritirare il disco dal mercato. Senza addentrarsi in discussioni sul copyright, pare una mossa contraria anche solo al buon senso: un omaggio come il Grey Album può al limite giovare alle vendite del White Album, suggerendone l’acquisto a chi ancora non lo possedesse, ma certo non danneggiarle.
Come sempre, il proibizionismo produce effetti contrari. Grazie al polverone sollevato la popolarità del disco decolla, e lo scambio di file arriva dove non sono arrivati gli avvocati. Il 24 febbraio 2004 viene addirittura organizzato il Grey Tuesday, giornata di disobbedienza civile in cui 170 siti web mettono a disposizione l’album gratuitamente per 24 ore, invitando a scaricarlo come gesto di protesta. Aderiscono più o meno in centomila, decretando insieme l’obsolescenza dei metodi delle major, e l’ascesa di un giovane nerd di provincia a icona dell’attivismo artistico del terzo millennio. L’album che non esiste è disco dell’anno per “Entertainment Weekly”, il suo titolare è uomo dell’anno per “GQ”.

C’entra la EMI anche nel terzo dei momenti-chiave di cui sopra. L’oggetto del contendere è questa volta Dark Night of the Soul, album co-firmato con gli Sparklehorse, nome di spicco del giro indie-country, e David Lynch, qui nella insolita veste di autore delle oltre cento fotografie a corredo del disco. La vecchia ruggine resiste, se è vero che sono proprio problemi legali con la casa a bloccare l’uscita: “A causa di una vertenza in corso con la EMI,” ha dichiarato un portavoce del topo, “Danger Mouse non è in grado di pubblicare la musica registrata per Dark Night of the Soul senza timore di essere denunciato da EMI.” Strano, considerato che gli stessi Sparklehorse sono sotto contratto EMI, così come vari gruppi prodotti da Burton negli ultimi anni, ma nulla più se ne sa. Fatta la legge trovato l’inganno, comunque: l’album esce lo stesso, ma con un CD-R vergine in luogo di quello vero e proprio, e una scritta: “Per ragioni legali, il CD-R allegato non contiene musica. Usatelo come volete.” Per masterizzarvi le tracce già ampiamente circolate in rete, quindi, e per fissare insieme ad esse una verità dei nostri tempi: un disco esce nel momento in cui è in rete. E forse del disco stesso non c’è più così bisogno.

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