LOVE IS THE MESSAGE
La disco prima e dopo Saturday Night Fever

Lo ammetto. Per parte della mia vita avrei voluto esserci anche io, il 12 luglio del 1979, al Comiskey Park di Boston. L'aveva pensata bella il ventiquattrenne dj radiofonico Steve Dahl per portare più gente possibile alla sfida fra i locali White Sox e i Detroit Tigers, Major League di baseball: ingresso a soli 98 centesimi per chi si fosse presentato ai cancelli con un vinile di disco music. Nell'intervallo, un grosso rogo a centrocampo avrebbe simboleggiato la fine di un'epoca. Della prosaicità delle motivazioni – il rockettaro Dahl aveva perso il posto perchè l'emittente era passata a un palinsesto esclusivamente disco – i presenti non sapevano, ma era comunque il peso simbolico del tutto a contare. Era una guerra, grido di battaglia “disco sucks”. Perchè se è vero che il fenomeno era ormai penetrato a fondo nel tessuto sociale statunitense, e ogni brava città di provincia aveva la sua discoteca, qualcosa lo legava sempre a un'esclusività fighetta e finta molto newyorkese. Troppo, per il più terra terra Midwest: “Il tipo qualunque di Chicago non aveva i vestiti giusti, non veniva fatto entrare nei locali giusti e pensava che per colpa della disco non avrebbe scopato mai più”, disse lo stesso Dahl. Fumo nero quindi, fiamme purificatrici e una situazione che andò fuori controllo ben presto. In novantamila stiparono le tribune e bloccarono le strade circostanti, e quando il capopopolo accese il cerino si riversarono euforici sul prato e spaccarono tutto. Passò alla storia come Disco Demolition . “Uno dei dieci momenti più scioccanti nella storia del baseball”, secondo la rete sportiva ESPN.

Una dimostrazione lampante di quanto un fenomeno culturale, col crescere della sua esposizione mediatica e della sua popolarità, venga percepito dalle masse in maniera sempre più distante da ciò che era in origine. O lo diventi proprio, qualcosa di diverso da ciò che era in origine. Ma l'epoca di cui sopra aveva iniziato a finire circa un anno e mezzo prima, ed è quella la ricorrenza in cifra tonda che oggi ci dà lo spunto. Gennaio 1978, trent'anni fa: la colonna sonora di Saturday Night Fever - doppio album con inediti dei Bee Gees e brani di Kool & the Gang, Tavares, KC & the Sunshine Band, The Trammps e MFSB fra gli altri - raggiunge il primo posto in ben due classifiche di Billboard, quella black e quella pop. In quest'ultima scalza Rumours dei Fleetwood Mac, lì da otto mesi. Nella stessa settimana, cinque estratti dall'album sono nella classifica dei singoli, uno dei quali (Stayin' Alive , va da sè) in vetta. Sarà la colonna sonora più venduta di tutti i tempi, e l'album più venduto di tutti i tempi fino all'arrivo di Michael Jackson e Thriller. Tony Manero, protagonista del film decisamente bianco ed eterosessuale, e le sue vicende da musical hanno ben poco a che fare con il movimento come fino ad allora lo si è inteso, ma lo spartiacque sta lì, gli anni dell'underground sono andati definitivamente. La disco è fuori dal sottosuolo.

Ma cosa era la disco in origine? E come si era trasformata in questa disco? Come era passata da un pubblico per lo più working class, nero e gay a uno artistoide, aristocratico e bianco, o a un'altrettanto bianca moltitudine suburbana? Come era diventata, partendo da ideali di fratellanza, uguaglianza ed inclusione, una realtà elitaria, luccicante ed esclusiva, oppure la caricatura di sè? Come aveva fatto una cultura musicale fra le più fresche e creative a codificarsi e stagnare in nome del profitto facile e del glamour?

Se vogliamo continuare con le date, bandierine in terreni altrimenti sfumati e mutevoli, la disco forse nasce a New York nelle prime ore del 28 giugno 1969, di fronte a un localetto nel Greenwich Village, lo Stonewall Inn. Per la prima volta i gay si incazzano, le regine scendono dai tacchi a spillo e reagiscono violentemente ai soprusi dei poliziotti, applicatori di leggi medievali in tema di omosessualità. Gli scontri durano ore, i cops non riescono a contenere la rivolta e si ritirano sotto una pioggia di pietre. Una retata in un club da poco si trasforma nell'atto di nascita del movimento per i diritti degli omosessuali. Gli afroamericani stanno facendo ed ottenendo altrettanto, e la disco - con il suo unire idealismo hippy dei '60, realismo urbano dei '70 e desiderio di liberazione in senso lato - sembra fatta apposta. A pochi isolati dallo Stonewall Inn, in un club fuoriorario illegale chiamato Haven, un ragazzo di Brooklyn sta cambiando senza saperlo il corso della musica pop. Si chiama Francis Grasso, ed è il primo dj dell'era moderna.

Non suona quello che dice la classifica, con un lento ogni tanto per far bere la gente e far contento il gestore. Suona quello che ama, guidato dall'istinto, dalle emozioni e da una tecnica che diremmo sopraffina, se solo prima di lui fossero esistiti il concetto di tecnica applicato a un dj e termini di paragone. Dicono bene Bill Brewster e Frank Broughton nel fondamentale Last Night a DJ Saved My Life: “Francis suonava musica, quelli prima di lui avevano solo messo su dei dischi.” Al Haven e al Sanctuary, tanto per cominciare, Grasso non lascia vuoti fra un pezzo e l'altro, cosa niente affatto ovvia nel 1969. Mette a tempo (senza preascolto nè aggiustatore di velocità, con puntine che saltano solo a guardarle) le ultime battute di uno con le prime dell'altro; va avanti e indietro fra due copie dello stesso disco per dilatare il piacere, o le suona insieme ma leggermente sfasate; butta Whole Lotta Love sul break di I'm a Man dei Chicago Transit Authority; passa dagli Stones a Kool & the Gang, dagli Osibisa a Santana, dal funk alla Motown, e chiude con The End dei Doors. Inaugura una serie lunga fino ad oggi di dj più importanti dei loro dischi, che moltiplicano invece di sommare. Ed è questa la novità radicale della disco: il dj è al centro di tutto. Come un musicista costruisce un discorso, con dischi, giradischi e mixer invece di chitarra e microfono. Come un sacerdote porta la gente dove vuole, e la gente ne vuole sempre di più. Steve D'Acquisto e Michael Cappello sono i primi compagni di strada di Grasso, insieme stanno svegli per giorni in botta di anfetamine, setacciano negozi di dischi, scopano tutto quello che capita a tiro, suonano.

Ma il tiro lo alza un altro italoamericano, un visionario di nome David Mancuso. Che comincia registrando cassette in cui inserisce effetti sonori fra la fine di una canzone e l'inizio della seguente, e suonandole ai rent party che organizza nel suo loft di SoHo. Il giorno di San Valentino del 1970 il tutto prende forma compiuta: la festa quella sera si chiama Love Saves the Day, e il numero 647 di Broadway diventa The Loft, il nightclub definitivo. L'ingresso ai party settimanali è riservato agli amici, ma non è un controsenso con quanto detto più su. Il messaggio non è “noi dentro siamo fighi, tu fuori no”. È piuttosto “faccio festa insieme a gente che mi piace, ognuno dovrebbe farlo.” David lì ci vive, d'altronde: “Volevo che fosse privato. Dovete ricordare che il Loft era anche dove dormivo, dove sognavo, tutto.” Difficilmente, poi, un criterio diverso dalla semplice conoscenza personale avrebbe potuto selezionare un così variegato mix di etnie, classi sociali e orientamenti sessuali. Come ebbe a scrivere Vince Aletti, primo cronista a documentare in tempo reale la cosa senza nome che stava succedendo, “…era come trovarsi al compleanno di qualcuno - di tutti.” Il padrone di casa lancia brani sconosciuti che la mattina dopo tutti cercano in giro per la città (Soul Makossa di Manu Dibango l'esempio più clamoroso), e persegue un ideale puro di bellezza e amore scegliendo per gran parte della sua carriera di non mixare e di far sentire le tracce per intero. La canzone è scelta in base al suo messaggio, a come questo reagisce con quello della precedente, a che storia David vuole raccontare quella sera. È un flusso altalenante ed umorale che tuttora commuove chi c'era e ne parla, così come spesso e volentieri le lacrime scendevano in pista.

Love Is the Message, insomma. Ed è proprio il classico firmato MFSB, inno Philly-soul associato in parti uguali a entrambi, ad unire la storia di David a quella di Nicky Siano. Un diciassettenne di Brooklyn che ha visto la luce a casa Mancuso e vuole rendere la stessa atmosfera in chiave commerciale. Ci riesce benissimo, e il connubio di quanto detto fin lì dai pionieri in termini di ricerca sonora, libertà stilistica, tecnica e ideali è la sua leggendaria Gallery, sulla ventiduesima strada. La disco forse nasce anche lì, nel 1972. Esibizionista, fanatico dei toni bassi, virtuoso del mixer (è il primo ad usare tre piatti, ispirato a suo dire da un sogno in cui mixava proprio Love Is the Message con Girl You Need a Change of Mind di Eddie Kendricks e con il suono di un jet ), i suoi set sono un crescendo inarrestabile che prende la gente e la fa gridare, a volte fino a sovrastare la musica stessa. Frenesia pura, giochi di equalizzazioni e di luci, approccio selvaggio, le innovazioni di Grasso spinte verso limiti nuovi. Nel suo Turn the Beat Around – The Secret History of Disco (uscito di recente per Kowalski, intitolato You Should Be Dancing – Biografia politica della discomusic e purtroppo penalizzato da una traduzione italiana non all'altezza) Peter Shapiro trova la sintesi perfetta: “Se Francis Grasso fu il Chuck Berry dei piatti, Siano ne fu il Jimi Hendrix.”

La disco comincia ad essere chiamata disco (anche se tuttora buona parte dei pionieri non va matta per il termine, vedi Siano stesso nelle note dell'eccellente tributo alla Gallery pubblicato da Soul Jazz nel 2004). Esiste come luogo fisico ed attitudine, ed esistono i dj che ne stanno gettando le basi a suon di soul, r'n'b, funk e un po' di rock in 4/4. Ma non esiste ancora come genere musicale. Che prenderà forma anche e soprattuto grazie alle esigenze e ai gusti dei dj e del loro pubblico, soggetti sempre più cruciali nelle dinamiche dell'industria.

Il dj vede ogni sera quali pezzi fanno ballare e quali meno, ma soprattutto quali parti dello stesso pezzo fanno ballare e quali meno. Perchè suonarlo tutto, quando basterebbe quel break centrale? Perchè quel break centrale deve durare così poco? I pezzi stessi mutano di conseguenza nella forma. Le dilatazioni live spinte di Nicky Siano con due copie dello stesso disco diventano prassi. Entri Tom Moulton, più o meno l'inventore del mixtape, del re-edit e del 12”. Tutto comincia nel 1972 a Fire Island, lembo di terra prevalentemente gay al largo di Long Island, ricco paradiso bohémien di dune sabbiose, promiscuità e tolleranza. Centinaia di omosessuali bianchi vi si spostano da New York nei fine settimana e d'estate, e vogliono ballare. Modello con un passato nella discografia, colpito dalla pochezza dei dj del posto, Moulton impiega 80 ore di faticoso taglia e incolla per mettere insieme 45 minuti di cassetta mixata perfettamente. Il proprietario del Sandpiper apprezza e il nostro è ingaggiato per fornire periodicamente al locale altre cassette. Che contengono anche versioni allungate, realizzate sfuttando le conoscenze nell'ambiente per ottenere versioni strumentali dei brani su cui lavorare. Ma il contatto funziona anche in senso inverso, e a Tom vengono date le chiavi dello studio per mixare, stirare, manipolare e ravvivare tante canzoni bisognose per conto di varie etichette. Solo che un giorno di fine 1975 i 7” di metallo su cui stampare la copia master del disco sono finiti, e il promo di So Much for Love dei Moment Of Truth diventa il primo singolo su 12” della storia. Nello scetticismo generale, nonostante la qualità sonora incredibilmente migliore. Il primo distribuito commercialmente sarà invece quello di Ten Percent dei Double Exposure, portata da tre a dieci minuti e trasfigurata da un Walter Gibbons che già superava Moulton in quanto a radicalità dell'intervento. Il resto è noto.

Ma il cambiamento non è solo nella lunghezza e nella struttura delle canzoni, o nei suoni del nuovo genere nel frattempo venuti allo scoperto (impianto soul funk, cassa dritta, basso pulsante, archi, armonie vocali, break percussivi). Quando Love's Theme della Love Unlimited Orchestra di Barry White, spinta da un altro mito come Bobby “DJ” Guttadaro, è prima nella classifica pop - e l'album che la contiene vende 50000 copie - senza ancora essere passato una sola volta in radio, l'industria capisce che nei club sta succedendo qualcosa di serio, che lì va puntata l'attenzione e che dalla disco si può guadagnare un sacco di soldi. Al diavolo il contesto, le radici, l'amore e il messaggio: non esiste un'altro genere di musica capace di far battere il piede e trascinare in pista una così ampia fetta di popolazione, e l'occasione va sfruttata.

Sono le prime avvisaglie di quello che diverrà evidente con il boom di Saturday Night Fever, qualche tempo dopo: grandi etichette aprono la sussidiaria disco, star del pop e del rock in discesa tentano di riciclarsi in veste disco, stazioni radio rock aumentano gli ascolti diventando disco (alla faccia di Steve Dahl), ogni locale o bar o bettola o centro commerciale ricava uno spazietto per un dj e una pista. Tutto è improvvisamente disco, ma come sempre vincono gli aspetti più esteriori e fuorvianti del fenomeno. Anche perchè nel frattempo (e l'elite palestrata bianca di Fire Island qualcosa ne sa) all'estremo opposto i club newyorkesi diventano sempre più affare da celebrità, laccati, irraggiungibili, eccessivi, decadenti. Con lo Studio 54, aperto il 26 aprile del 1977, come simbolo supremo (e il Paradise Garage del fantastico Larry Levan a fare invece da baluardo dello spirito originario ed incubatrice dell'evoluzione della disco verso altre forme). Posto bellissimo, lo Studio. Con un impianto impressionante e un dj dalle credenziali inattaccabili come Richie Kaczor, che scopre nientemeno che I Will Survive sul retro di un singolo, la suona svuotando la pista (!) e continua imperterrito a suonarla fino a che, piano piano, non diventa una sorta di inno nazionale suo e del locale. Ma posto altrimenti lontanissimo dagli ideali che avevano nutrito e rafforzato la disco fin dai primi giorni: esame durissimo all'ingresso (un colosso dance come Le Freak degli Chic diceva in origine “Fuck you” e non “Freak out”, e fu scritto da Nile Rodgers e Bernard Edwards rimbalzati alla porta nonostante i loro dischi fossero in altissima rotazione in pista…) e ogni genere di eccesso dentro, circondati da individui che dovevano per forza appartenere alla medesima casta, se erano riusciti ad entrare. “La democrazia debosciata dentro dipendeva dal fascismo alla porta, e in questo lo Studio 54 era l'antitesi dei disco club originali”, per citare ancora Brewster e Broughton.

Troppa Disco 2.0 in giro insomma. Musicalmente sempre più scadente, e spremuta febbrilmente da etichette abituate a lavorare con le stelle del rock, a disagio in una scena dove la vera stella è il dj, quello che mette i dischi. Socialmente e culturalmente ridotta a fortezza irraggiungibile, teatrino di sesso e cocaina o macchietta da villaggio vacanze. Mentre a Chicago ci si rivolge alle fiamme (aggiornamento: non vorrei più esserci stato, diciamo da una decina d'anni in qua) e allo Studio 54 l'orchestra continua a suonare mentre la nave va a picco, la vera essenza della disco guarda già altrove: a garage (da Paradise Garage, appunto) e house per esempio, o a ibridazioni con il punk e il suo post che oggi più che mai risuonano fortissime. Esatto, il punk. Uno dei maggiori nemici presunti della disco. Che si odiassero perchè molto simili, in fondo?

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