GLI ECHI URBANI DEL DUBSTEP

Sulla carta, sembrerebbe l’ennesimo termine decodificabile solo dagli addetti ai lavori più maniacali. Sottogenere di sottogenere, ulteriore sfaccettatura di un mondo musicale assai vasto che nel Regno Unito chiamano urban, e che dagli anni ’90 in qua ha riunito con discreta approssimazione tutti gli incontri fra elettronica e musica nera. Dubstep, somma algebrica di dub e 2-step: sulla carta, quanto di più tecnico non si potrebbe. Di fatto, qualcosa che pare invece destinato a durare, ben oltre la soglia di attenzione ridotta che ogni nuovo fenomeno simile ottiene di solito oltremanica, e ad esercitare un’eco ben più potente. Non fosse altro che per un motivo: stavolta non ci si riferisce a una nicchia ristretta all’inverosimile, ma la parola è piuttosto un ombrello per qualcosa di altrimenti poco definibile, in costante mutamento, unito da un sentire comune più che da codici musicali rigorosi. E annuncia il suono elettronico più fresco del momento, attualissimo nel coniugare passato e futuro, mente e corpo, straniamento e calore umano.

Will Bevan: un nome, un cognome e una faccia da ragazzo londinese qualunque. Parlando di dubstep, la notizia più fresca al momento di andare in stampa non ha a che fare con la musica, ma con le generalità del suo portabandiera. Con lo pseudonimo di Burial, e senza mai rivelare alcunchè di sé stesso (“Solo cinque persone sanno che faccio canzoni” è stata a lungo una delle sue pochissime dichiarazioni), Bevan ha infatti dato alle stampe i due album quasi interamente strumentali che hanno lanciato il genere, trasformandolo da fenomeno locale a tendenza mondiale, Burial del 2006 e Untrue del 2007. È stato un breve messaggio apparso il 5 agosto sulla sua pagina MySpace a rompere l’incantesimo: “Non è così importante sapere chi sono. Volevo restare sconosciuto perché voglio che l’unica cosa importante sia la mia musica. Poi la cosa è diventata quasi un problema, e non mi è più piaciuto. Sono un tipo tranquillo che vuole solo fare musica, nulla più.” Il sito della sua vecchia scuola conferma, inserendolo fra gli allievi celebri, ma nei forum in rete c’è già chi ipotizza un bluff ancora più raffinato: provando a introdurre “William Bevan” nel motore di ricerca Google, il primo risultato è una omonima ditta di pompe funebri di Ross-on-Wye, nello Herefordshire. E considerato che lo pseudonimo del nostro si traduce in “sepoltura”, potrebbe in effetti non trattarsi di una semplice coincidenza.
Nel dubbio, restano però i dischi di cui sopra. Due affascinanti istantanee a tinte scure, che come detto applicano la Giamaica del dub sull’Inghilterra del 2-step. Il primo nasce nei primi anni ’70 dal reggae, per sottrazione: dei brani resta lo scheletro, il telaio di basso e batteria, filtrato attraverso echi ed effetti, con brandelli di voci e fiati che entrano ed escono. Il secondo deriva dal cosiddetto UK garage, termine altrettanto sfuggente usato per indicare le varie mutazioni britanniche della musica house, e ne varia il classico ritmo dritto levando secondo e quarto colpo di cassa. L’enfasi è posta più che mai sulle frequenze basse e bassissime, ma la pista da ballo tradizionalmente intesa è lontana, lontanissima: i ritmi creati da Burial sono spezzati, nervosi, sparsi; le atmosfere sono rarefatte, malinconiche, struggenti, a tratti spettrali. Evocano periferie deserte, sporadiche luci accese in casermoni tutti uguali, asfalto bagnato dalla pioggia. Affondano le loro radici nelle pieghe più notturne del trip-hop di Tricky e dei Massive Attack, respirano con campionamenti vocali di provenienza non specificata. Incantano pubblico e critica: Burial è album dell’anno per l’autorevole rivista The Wire, Untrue è secondo nella classifica annuale del sito Metacritic (che raccoglie e somma le recensioni dei critici di tutto il mondo) e guadagna una nomination per il prestigioso Mercury Prize. Il loro autore sembra avviato verso una carriera di primo piano, con nomi grossi del pop britannico (Thom Yorke dei Radiohead, le giovani stelle indie Bloc Party) che non perdono l’occasione di commissionare remix di loro brani al produttore misterioso, e un terzo album in lavorazione per il quale l’attesa è già altissima.

Non male, per una scena nata agli albori di questo millennio intorno a un piccolo negozio di dischi di Croydon, sobborgo a sud-ovest di Londra. Nata quasi per gioco con pochi mezzi e tanta creatività, come già fu per la techno, altro ciclone destinato a rivoluzionare dal basso il mondo della musica dance in senso lato. Il negozio si chiama Big Apple, e fra i clienti c’è un tipo che si fa chiamare Benny Ill, con un gioco di parole geniale che unisce il vecchio cabarettista britannico Benny Hill e il gergo rap americano (dove “ill” sta per qualcosa di sublime, creativamente superiore). È Hatcha, oggi uno dei dj più quotati del giro e allora commesso del negozio, a coniare il termine. Lo ricorda Arthur “Artwork” Smith, che nel suo studio al piano di sopra produceva UK garage come Menta: “Benny cercava di produrre garage, ma metteva il rullante sulla battuta sbagliata, sulla terza. Faceva una specie di versione dub del garage. ‘È roba strana’, ci dicevamo. Ma Hatcha la adorava, e la chiamò dubstep.”
Benny e i suoi contemporanei El-B e Wookie usano software gratuito per PC o per Playstation, e aprono la strada a una comunità di produttori locali che ben presto si coagula fra gli scaffali di Big Apple: Skream, Benga, Loefah, Plastician, Zed Bias, Horsepower, i due Digital Mystikz Coki e Mala. Ma Croydon non è l’unico focolaio, e le zone a est della città dove impazza il coevo ed affine grime (la miscela frenetica e minimale di hip hop e jungle portata al successo da nomi come Dizzee Rascal e Wiley) si dimostrano terreno altrettanto fertile. I due stili vanno in effetti a braccetto, le basi dubstep si dimostrano ideali per le verbose declamazioni al microfono degli MC (Master of Ceremony, altra eredità del gergo reggae prima e di quello rap americano poi) che infiammano la scena grime, una serata settimanale come FWD>> diventa ogni venerdì l’appuntamento cruciale per tutti. Le tracce stesse vengono prodotte quasi con l’unico scopo di essere suonate lì, con un impianto di amplificazione adeguato che non tagli fuori gran parte delle frequenze più basse, e le modalità ricordano quelle dei dubplate giamaicani: finito anche il giorno stesso, il brano viene immediatamente stampato in un numero di copie che varia da uno a qualche decina, e testato immediatamente in pista. Vinili con l’etichetta completamente bianca – per questo battezzati “white label” – che sono rarità dal primo istante, e aggiungono esclusività e mistero al tutto. Benga: “Mi piace il fatto che la gente possa sentirmi solo alle feste. Mi chiedono di poter ascoltare questo o quel disco, io gli dico dove suonerò e poi li rivedo sul posto.”

È in queste serate e in queste tracce che si svela l’anima più stradaiola ed eclettica del dubstep. Il suo essere un’ibrido sonoro in continua evoluzione di reggae, soul, hip hop, jungle e drum’n’bass, oltre che dei citati UK garage, grime e soprattutto dub. Un movimento multirazziale (i nomi coinvolti sono indifferentemente bianchi e neri, ed è una caratteristica purtroppo non comune) che si nutre di quanto sta nell’aria di una metropoli, e lo rilegge attualizzando la lezione dei maestri giamaicani di tre decenni fa, come King Tubby o Lee “Scrath” Perry. Si lavora sugli spazi, sui vuoti più che sui pieni, l’incedere profondo della linea di basso è la spina dorsale sulla quale poggiano echi e riverberi avventurosi.
Nell’aria stanno anche le radio, altro mezzo di diffusione fondamentale per la storia che raccontiamo. Soprattutto quelle pirata, che intasano l’etere londinese trasmettendo da piccoli appartamenti o garage, come faceva in origine Rinse FM, la più accreditata voce radiofonica del dubstep. Oggi è un’emittente regolare in tutto e per tutto, è accessibile anche via web ed è un passaggio obbligato per chi volesse saperne di più, e magari provare a capire da che parte si sia diretti. Ma c’è anche la cara vecchia BBC, sempre attentissima a ciò che spinge dal basso: è l’ormai leggendario speciale di Mary Anne Hobbs del 10 gennaio 2006 - con brevi set in diretta di Mala, Skream, Hatcha, Vex’d, Distance, Loefah e dell’asso scozzese Kode9 - a segnare il passaggio ufficiale del dubstep dai sotterranei alla massima visibilità, e a dare il là a una miriade di produttori, etichette, dj e serate in ogni parte del pianeta.
Manca ancora il successo da classifica (“Night” di Benga e Coki lo è stata in campo dance), ma il mondo del pop pare aver comunque preso atto: “Freakshow” per esempio, dall’ultimo album di Britney Spears, è costruita su un ribollire di basso al limite della distorsione che parla chiaro. Chi ha preso atto di sicuro è invece Ricardo Villalobos, genio cileno/berlinese della techno minimale più sperimentale, il cui remix di “Blood on My Hands” di Shackleton ha recentemente dato il via a una felice commistione fra i due generi: “Amo i produttori di dubstep, la loro maniera di esplorare i limiti del suono. Se ne fregano, vanno sempre al limite, costi quel che costi.”

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DISCOGRAFIA CONSIGLIATA

Burial “Burial” (Hyperdub, 2006)
Nessuno o quasi sa chi sia, ma Burial mette d’accordo tutti con questo fulminante debutto omonimo, dal ragazzino con il cappello da baseball ai critici di The Wire e Pitchfork. Il suono nella testa di un raver che si risveglia, in pieni Territori Londinesi.

Burial “Untrue” (Hyperdub, 2007)
Se possibile, ancora meglio del suo predecessore. Ancora più emozionale, e con una più forte componente vocale, Untrue è un percorso per le vie della città deserta mentre la notte cede il passo all’alba. Musica dell’anima, inimitabile e commovente.

Shackleton/Appleblim “Soundboy Punishments” (Skull Disco, 2007)
L’intero catalogo in vinile dell’etichetta dei due di Bristol, raccolto in due cd essenziali. L’anima più scura e sperimentale del dubstep, con radici reggae e fascinazioni mediorientali. C’è anche “Blood on My Hands”, ovviamente, in versione originale e nell’epocale remix di Ricardo Villalobos.

Benga “Diary of an Afro Warrior” (Tempa, 2008)
Uno che c’è dall’inizio, che ha esordito su singolo a soli 16 anni e che in questo primo album mostra talento e voglia di superare i confini del genere, quali essi siano. Attitudine da party, tentazioni electro-house e momenti riflessivi: la hit “Night” è solo una delle carte in mano.

AA.VV. “Steppas’ Delight - Dubstep Present to Future” (Soul Jazz, 2008)
Un doppio cd che è consuntivo e futuro insieme. 19 tracce che passano in rassegna nomi affermati ed emergenti, classici e novità. Da Kode9 a Peverelist, da Benga a Gatekeeper, da Search And Destroy a The Bug, fino al rumeno TRG e al giapponese Goth Trad.

AA.VV. “Dubstep Allstars Vol. 06 – Mixed by Appleblim” (Tempa, 2008)
Sesto volume della collana allestita dal rispettato marchio Tempa, mixato da un Appleblim (Skull Disco) in stato di grazia. Un’istantanea fatta soprattutto di tracce nuove o esclusive, entusiasmante come le cinque che l’hanno preceduta, a cura di Hatcha, Youngsta, Kode9, Youngsta & Hatcha e N-Type rispettivamente.

The Bug “London Zoo” (Ninja Tune, 2008)
Dal veterano Kevin Martin, un incontro esplosivo fra suoni duri e martellanti e voci di chiara derivazione dancehall giamaicana, a cura del vecchio asso reggae Tippa Irie e di una pattuglia di MC anglo/caraibici in fiamme. Si balla, anche.

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