GRANDMASTER FLASH

It's public knowledge, è pubblico dominio.” Lo ripete più volte Joseph Saddler, nel corso di una telefonata che spesso tende a concentrarsi sul passato, e sulle circostanze che lo hanno reso una figura fondamentale nello sviluppo della musica popolare degli ultimi tre decenni. Ma ha ragione solo in parte. L'importanza di Grandmaster Flash, nome d'arte tanto altisonante quanto meritato che lo accompagna da sempre, per la nascita dell'hip hop è infatti riconosciuta dagli appassionati di ogni latitudine. È un dato di fatto che porta con sè rispetto, soggezione, venerazione. Eppure, con il genere ormai diventato quella cosa enorme e globale che è oggi, il rischio è quello di soffermarsi sulle cicatrici di 50 Cent e sulle smorfie dei Black Eyed Peas, sui video con bellezze discinte e gangster veri o presunti, e di ignorare i pionieri. Dando per scontato ciò che a metà anni '70 era tutt'altro che scontato, e sottovalutando la portata rivoluzionaria del fenomeno. Si parla infatti dell'unico genere, con il dub, che nasce usando musica già esistente. Suonata, registrata e pubblicata da altri. Presa e plasmata per assecondare le proprie esigenze creative, lasciando libera l'immaginazione, spostando i limiti più in là. Laddove gli strumenti del dub sono il banco dello studio di registrazione e i suoi effetti sonori, quelli dell'hip hop sono invece due giradischi e un mixer essenziale. Le armi del DJ, il punto di partenza. È Kool Herc il primo a capire che i ballerini apprezzano sì la canzone intera, ma impazziscono se qualcuno ne isola le parti strumentali più ritmiche, i cosiddetti breaks. È Flash a formalizzare l'intuizione, è lui il primo a mettere a tempo frammenti di dischi diversi, a comprare due copie dello stesso disco e a suonarne il break senza soluzione di continuità, creando di fatto brani nuovi. È lui il primo a manipolare il vinile stesso, a farlo diventare in tutto e per tutto uno strumento pari alla batteria o alla chitarra, a prefigurare con le dita i campionatori che verranno. E tutto il resto.

La storia inizia in un salotto del Bronx, dove la famiglia Saddler si è trasferita dopo aver lasciato Barbados. “Il mio interesse nasce da bambino. Mio padre aveva uno stereo e collezionava dischi, e ogni volta che non stava guardando, ogni volta che andava a lavorare, io andavo a molestare il suo stereo, a prendere dei dischi e a metterli. Lui lo scopriva e mi dava una sberla. Poi andava a lavorare, io tornavo allo stereo e ricominciavo, e lui mi menava di nuovo. E avanti così.” Alla curiosità innata aggiungiamo studi tecnici di ramo elettronico, ed è fatta. Gli amici passano a chiamarlo per andare al parco a rimorchiare, lui resta in casa a smontare giradischi, a costruire sistemi di pre-ascolto rudimentali per il mixer, a cercare soluzioni pratiche per la sua visione musicale, a battere strade inesplorate. “Non avevo nessun piano, nessuna intenzione di creare questo o quest'altro. Volevo solo venirmene fuori con un nuovo modo di fare le cose con i giradischi. Lo facevo e basta. Negli anni '70 la musica davvero popolare era la disco, ma per noi non era un suono interessante. Così ci rivolgevamo a canzoni che la radio non passava, alcune erano nuove, altre oscure, altre vintage. L'hip hop è stato creato dal DJ, era controllato e governato dal DJ. Quando Kool Herc, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash lo hanno creato, era una maniera alternativa di godersi la musica, era musica alternativa. I block party erano enormi, la gente arrivava da ogni parte per esserci.” Cosa sia un block party, snodo cruciale per l'hip hop e la cultura afroamericana tutta, dovrebbe essere una delle nozioni di pubblico dominio di cui sopra, ma la tentazione di sentirlo raccontare è troppo forte: “ È come un festival all'aperto in città, per la strada. Qualcuno porta un impianto audio da qualche parte, e suona della musica. Di solito cominciava verso mezzogiorno e finiva verso le nove, ci veniva la gente del quartiere e non solo. Una settimana o due in anticipo facevamo sapere che saremmo stati in quel dato posto, spargevamo la voce. Le feste non erano mai del tutto autorizzate, ma le autorità non si opponevano: se tutti sono in un posto solo, la polizia non ha nulla da fare. Posteggiavano la macchina dall'altra parte della strada e si rilassavano. Tutti erano lì a ballare, non succedeva nessun casino.”
Nei campi di basket e nei cortili del Bronx, quindi, Flash e i sui colleghi pionieri affinano l'arte nel modo più diretto possibile: sottoponendo i loro esperimenti al giudizio della gente. “Era un vero e proprio rodaggio. Qualunque cosa avessimo provato e riprovato a casa, la portavamo al block party per vedere se funzionava. Qualche volta Herc aveva quella canzone speciale, qualche volta Flash aveva quella canzone speciale, qualche volta Bam aveva quella canzone speciale... tracce nuove da provare sul campo.” Ma inizialmente, nonostante il nuovo stile fosse stato creato proprio per i ballerini, le reazioni non furono esattamente entusiaste: “La gente era un po' confusa, su come riuscissi a fare quelle cose sui piatti, e sul perchè le facessi. Poi la confusione si è trasformata in divertimento, e ora ogni dj hip hop al mondo lo fa.” Solo una questione di tempo quindi, accelerata dalla comparsa sulla scena degli MC, letteralmente i Maestri di Cerimonia. Con un microfono, amici dalla favella svelta affiancano il DJ e incitano la gente a lasciarsi andare con brevi frasi in rima. La formazione-tipo è completa: l'MC chiude il cerchio aperto dal DJ, dall'acrobata snodato della breakdance (si balla sui breaks, ricordate?) e dal graffitista che colora muri e vagoni con le sue bombolette. I quattro attori protagonisti della cultura hip hop sono loro. Siamo a metà degli anni '70, grossomodo. I primi dischi che lo comunicano al mondo sono del 1979, ma qualcuno batte Flash sul tempo: il primo singolo rap della storia è “Rapper's Delight” della Sugarhill Gang, il nostro è preso in contropiede e risponde poco dopo con i dodici minuti di “Superappin'”, esordio ufficiale di Grandmaster Flash and the Furious Five. I cinque sono Melle Mel, Kidd Creole, Rahiem, Scorpio e Cowboy, e la leggenda racconta che sia stato proprio quest'ultimo a coniare il termine hip hop, prendendo in giro un amico in procinto di partire per il servizio militare e marciare a lungo. The Message, primo album del gruppo, arriva solo nel 1982, ma nel frattempo il fenomeno è esploso. Le brevi filastrocche sono diventate testi, e un brano come “The Adventures of Grandmaster Flash on the Wheels of Steel” rende eterne la perizia e l'inventiva di Joseph Saddler. Che oggi riflette: “Forse nel mio cuore ho sempre sperato che la cosa diventasse più grande del solo Bronx, ma non ho mai assolutamente immaginato che sarebbe stata globale.”

L'occasione per fare quattro chiacchiere con il Maestro la fornisce The Bridge, primo album in studio dal lontano 1988. Un disco convincente, che ospita una nutrita pattuglia di rapper composta da mostri sacri (Snoop Dogg, Q-Tip, KRS-One, Big Daddy Kane, Busta Rhymes) e nomi nuovi, compreso il figlio J-Flo al debutto. “Ho scelto gli MC dopo aver scritto la musica. Una volta terminata ogni traccia la mettevo su cd e la ascoltavo in macchina, guidando per un paio d'ore. La traccia mi parlava, e mi suggeriva che voce sarebbe stata bene sulla musica. Sono soddisfatto soprattutto di Byata, Princess Superstar e Hedonis Da Amazon, le tre voci femminili di “Those Chix”. Il significato del titolo dell'album è chiaro: sono stato in tour in molti posti diversi, e osservando ho imparato tante cose diverse su ogni cultura. Tutte cose che ho provato a mettere in questo disco.” Intenzione lodevole. ma rimasta tale: non aspettatevi escursioni di Flash nelle musiche del mondo. Piuttosto, solido hip hop che coniuga sonorità moderne e old school, e temi altrettanto classici in pezzi come “Tribute to the Breakdancer”, “We Speak Hip Hop”, “ Bronx Bombers” e “What If”.
O “Here Comes My DJ”, perchè sempre di quello stiamo parlando. Un magazzino intero pieno di dischi (“Ho smesso di contarli, saranno più o meno trecentomila”), armi segrete (“Ho dei breaks italiani d'annata caldissimi... ma non posso rivelare il titolo! Non chiedere mai a una donna la sua età, non chiedere mai a un dj che pezzo sta suonando!”) e scalette mai preparate in anticipo sono i ferri del mestiere di un'intensa attività in giro per il mondo. Meglio DJ che produttore? “Difficile dire. Entrambi i lavori hanno a che fare con l'elettronica. Entrambi hanno a che fare con le mie mani e la mia mente, e con il loro funzionare come una cosa sola." E a chi ancora oggi dice che il DJ non è un vero musicista cosa rispondiamo? “Non me lo ha mai detto nessuno. Nel caso, prima mi spiegano perchè non lo è. Poi io spiego perchè lo è.”

(indietro)