GRIZZLY BEAR
I ragazzi del coro


“Abbiamo suonato in una chiesa, e poi a una festa con i Dinosaur Jr. Fantastico, mi fischiano ancora le orecchie.” Ancora sotto effetto Mascis dal South By Southwest, nonostante qualche giorno di decompressione post-festival sulla costa occidentale, Ed Droste risponde di ottimo umore dalla sua casa di newyorkese. Della kermesse di Austin racconta un po’ di altre cose, come la piacevole scoperta di Micachu & the Shapes (“Non li avevo mai sentiti nominare prima, e adesso sono un fan! Difficile descriverli, sono allegri e lo-fi, usano ukulele e campionatori, lei ha un cantato molto idiosincratico”) e le conferme quasi scontate fornite dai Beach House (“Sono stati semplicemente incredibili, naturalmente. Sono uno dei miei gruppi preferiti al momento, quando suonano le loro cose nuove mi fanno venire i brividi alla schiena. Eccezionali”). E proprio Victoria Legrand ci porta a Veckatimest, terzo splendido album dei Grizzly Bear in uscita a fine mese per Warp, che vede la celebrata cantante del duo di Baltimora fra gli ospiti. Si comincia parlando delle insolite suggestioni geografiche che il disco porta con sè.

Ho mappe molto dettagliate degli Stati Uniti, ma per trovare l’isola di Veckatimest ho dovuto davvero faticare. Da amante focoso di ogni carta geografica, vi ringrazio.
È un’isola estremamente piccola, dove non c’è nulla. Puoi trovarla se sai dove cercare, é a sud di Cape Cod, nel Massachusetts, vicino alla cittadina di Woods Hole, ed é parte di un piccolo arcipelago disabitato. È grossa come un isolato di città, puoi attraversarla a piedi in un minuto. Eravamo in zona, e un giorno abbiamo avuto la possibilita di fare un giro in barca da quelle parti. Ci piaceva quel nome nativo americano, e tutta l’area era cosi incontaminata e bella. Abbiamo passato tanto tempo a Cape Cod a registrare, ed è stata una scelta un po’ nostalgica…

Anche le altre due location non scherzano, comunque. Avete cominciato in una proprietà nello stato di New York, vicino a Woodstock, con una casa degli anni ’20.
Un posto incredibile, in cima a una montagna. È stata uno studio di registrazione di alto livello (David Bowie, Norah Jones – ndr), ma il proprietario non la ha più affittata ultimamente. Ci è stato offerto di usare gratis le stanze, non lo studio vero e proprio e il suo equipaggiamento, ma abbiamo ovviamente accettato. Abbiamo montato il nostro studio mobile e registrato nella great hall, dove molti prima di noi avevano registrato pianoforti, voci o batterie: una stanza stupenda, enorme e tutta di legno. Era il più bel posto possibile dove trovarsi in piena estate lo scorso anno.

E avete finito in una chiesa a Brooklyn. Due luoghi abbastanza isolati, e uno in piena città ma a modo suo anch’esso isolato. C’è una ricerca di solitudine, intimità, purezza?
Certo, abbiamo molti problemi a lavorare a New York. La città è dispersiva, ci abitiamo da dieci anni, conosciamo centinaia di persone, succedono centinaia di cose ogni momento, é sempre la festa di compleanno di qualcuno. Non solo è importante essere in un bel posto fuori città, ma é anche importante abbandonare per un attimo le nostre vite. Quando noi quattro ci isoliamo diventiamo una cosa sola, si crea un’energia quasi impossibile da ricreare quando c’é altra gente coinvolta, fidanzati e fidanzate e cose del genere. Andarsene é cruciale per il nostro processo creativo.

In che modo è stato importante il luogo dove vi trovavate?
Ci sono un paio di risposte. La prima, piu evidente, é che ogni posto ha come rivelato quale fosse la cosa migliore da registrare lì. Nella chiesa, ad esempio, c’é un riverbero naturale eccezionale, perfetto per le voci. Lassù nella great hall invece abbiamo trovato un fantastico suono di batteria. A Cape Cod infine, nel piccolissimo cottage dove stavamo, abbiamo registrato molte parti di chitarra più intime e delicate. Abbiamo fatto un po’ di tutto ovunque, ma ciascun luogo é stato il meglio per alcuni aspetti in particolare. La seconda risposta è che ogni posto é stato incredibilmente entusiasmante, e carico di ispirazione. Lavoriamo meglio quando ognuno si sente a suo agio e non é come in studio. Non avremmo mai potuto fare Veckatimest in uno studio. É così sterile, é aperto solo da quell’ora a quell’ora, hai le due settimane per le quali hai pagato e poi te ne devi andare. In quei posti é stato diverso, potevi fare le cose in piena notte, suonare chitarre a volume altissimo alle tre di mattina. Quando arrivava l’idea potevamo subito realizzarla, ed é il modo in cui lavoriamo meglio. Siamo stati molto fortunati.

Anche quello che vedevate fuori dalla finestra deve aver influito, no?
Sì, anche se non é mai una cosa conscia come ci si immagina. Ha un grosso effetto sul tuo stato d’animo, e la cosa si riflette nel tuo modo di suonare e cantare, nell’umore, nel tono. O nei dettagli minori: a Cape Cod era autunno, stava cominciando a fare freddo. C’era un camino acceso costantemente, e in qualche canzone, come Dory e Hold Still, puoi sentire il fuoco crepitare in sottofondo. Quando ci troviamo in un ambiente bello e adeguato, é come se tirassimo un grosso sospiro di sollievo, e questo influisce sulla nostra performance. Non direttamente, ma sull’energia complessiva, che ci fa arrivare alla migliore condizione possibile per affrontare la registrazione.

L’album è scritto, suonato, registrato interamente da voi quattro, e il vostro bassista Chris Taylor (in curriculum Dirty Projectors, Department Of Eagles e Miles Benjamin Anthony Robinson, e il restauro degli inediti di Arthur Russell finiti su Love is Overtaking Me lo scorso anno – ndr) ne è anche il produttore. Più facile o più difficile come situazione?
Entrambe le cose. Più facile perché abbiamo libertà nei tempi e nell’organizzazione, più difficile perché si viene a creare un piccolo conflitto di interessi, e gestirlo può essere un po’ delicato. Ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare la cosa.

L’eccezione, oltre ai cori di Victoria in Two Weeks di cui dicevamo, è Nico Muhly.
L’ho conosciuto un paio di anni fa, ho sempre apprezzato i suoi arrangiamenti, come quelli per Björk o Antony. Nel disco ha curato quattro arrangiamenti d’archi e due di cori, lavorare con lui é un piacere assoluto, lo rispettiamo profondamente. È stato sempre lui ad arrangiare il nostro repertorio per il concerto dello scorso 28 febbraio con la Brooklyn Philarmonic, esperienza davvero emozionante.

Hai accennato ai cori: le armonie vocali sono da sempre molto importanti per i Grizzly Bear. Come mai?C’é una cosa di cui molti gruppi parlano: il momento in cui basso e batteria si intrecciano perfettamente, in cui ti senti davvero compatto, in cui entri nel vivo di un concerto e tutto va al posto giusto. Non c’é nulla di simile, ed è la cosa per la quale vale la pena di suonare. Ecco, io penso che ci sia un elemento simile nel cantare in gruppo. Quando tutto si riunisce, tutti e quattro cantiamo, tutto va al posto giusto e ognuno prende le note nel modo giusto, é una delle sensazioni più belle al mondo. È fantastico, dà euforia. Ma é anche molto impegnativo, cantare armonie in quartetto è difficilissimo, ed é la cosa che ci prende più tempo quando proviamo. Alcuni di noi cantano meglio e altri peggio, ma tutti amiamo moltissimo cantare insieme, e ci divertiamo.

Ha anche a che fare con l’intimità di cui parlavamo prima?
La si può vedere anche così, pur non trattandosi di una cosa del tutto voluta. Certo c’é un’intimità nel cantare con altre tre persone con cui stai lavorando. E quando arrivi a quelle parti è favoloso. Ma non è così romantico come stai immaginando! Cantiamo molto in furgone, ma piu che altro per scherzo, canzoni stupide che inventiamo sul momento, per liberarci della stanchezza da tour.

Chi ti piace, fra i vari gruppi che da un po’ di anni a questa parte hanno riportato in auge questo modo di cantare?
Ovviamente i Fleet Foxes, che adoro. Sono un po’ più tradizionali di noi, ma hanno delle voci incredibili. Gli Akron/Family, che sono divertentissimi e hanno una grandissima energia. E i Midlake.

Tornando a Veckatimest: c’è un tema portante a tenerlo insieme?
Onestamente, non scriviamo mai in questo modo, non facciamo dischi a tema. Scriviamo canzoni che sono importanti per noi in quel momento, e se tutto va bene riusciamo a renderle coese tramite produzione e registrazione. Si tratta comunque di un album molto più collaborativo, ed é questo a tenere insieme il disco: tutti sono stati molto coinvolti nel processo di scrittura, a differenza dell’album precedente. Ed è stato un processo molto eterogeneo, senza routine, senza un modo predeterminato di affrontarlo. Sono andato via per un weekend con Chris Bear (batterista, e pare sia il suo vero nome – ndr) e abbiamo scritto Two Weeks insieme al piano, quasi per caso. Dory l’abbiamo scritta io e Daniel (Rossen, come Droste chitarrista e voce solista - ndr) mentre i due Chris erano nell’altra stanza a registrare la batteria di I Live With You, ed è la mia canzone preferita del disco. É stato bello, un processo continuo. Siamo diventati più band, siamo cresciuti insieme, diventando più sicuri delle nostre forze e debolezze.

In Ear Park, l’album di Daniel e Fred Nicolaus a nome Department Of Eagles, ha influenzato in qualche maniera Veckatimest?
Ne ha solo posticipato l’uscita di un paio di mesi, ed é andata anche bene perche avevamo bisogno di più tempo per lavorare su alcune cose, e di un po’ di vacanza. Erano anni che Daniel voleva fare uscire quelle cose, e siamo tutti molto contenti che ci sia finalmente riuscito. Anche Fred é un musicista eccezionale, e anche lui aspettava da tempo di pubblicare quel disco, visto che i Grizzly Bear avevano messo i Department Of Eagles come in attesa. Ora il disco c’è, ed è uno dei miei preferiti dello scorso anno. Una connessione sonora è naturale: Daniel é in entrambi i gruppi, e per entrambi è una grossa forza creativa. Ma finisce lì: ogni gruppo ha la sua personalità, siamo come cugini lontani.

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