L’ISOLA DEI FAMOSI
Bob Marley, U2, Tom Waits e non solo: Island Records compie 50 anni
Il puro e semplice elenco potrebbe occupare l’intero spazio a disposizione o quasi. Una versione ridotta resta comunque impressionante, per qualitá ed eclettismo, agli occhi di chiunque abbia frequentato la musica pop negli ultimi cinquant’anni: Burning Spear, John Cale, Chieftains, Jimmy Cliff, Julian Cope, Manu Dibango, Nick Drake, Emerson Lake & Palmer, Brian Eno, Fairport Convention, Marianne Faithfull, Free, PJ Harvey, Incredible String Band, Gregory Isaacs, Jethro Tull, Elton John, Linton Kwesi Johnson, Grace Jones, Kid Creole & the Coconuts, King Crimson, King Sunny Adé, Bill Laswell, Bob Marley & the Wailers, John Martyn, Mott the Hoople, Nico, Lee "Scratch" Perry, Pulp, Roxy Music, Slits, Sly & Robbie, Sparks, Steel Pulse, Cat Stevens, Toots & the Maytals, Traffic, Tricky, Ultravox, U2, Tom Waits.
Proprio cinquant’anni compie in questi giorni Island Records, casa discografica che accomuna – con la celebre palma o con i simboli delle varie etichette sorelle – questi nomi e molti altri, ed é una ricorrenza che evoca un altro mondo e un altro modo di fare dischi, forse scomparsi per sempre. Il mondo delle etichette come laboratori di creativitá dove far crescere artisti selezionati in base al gusto, e non alle potenzialitá commerciali. Il modo tanto imprenditoriale quanto appassionato di pionieri della discografia indipendente come Jac Holzman della Elektra, Ahmet Ertegun della Atlantic, Berry Gordy della Motown e Chris Blackwell della Island, appunto.
Nato a Londra nel 1937, cresce a Kingston, capitale di una Giamaica allora ancora colonia britannica. Fa il giocatore d’azzardo, l’insegnante di sci d’acqua, l’assistente personale del Governatore e il location manager per Dr. No, primo film di 007. Ma ben presto la musica e il suo mondo hanno il sopravvento, grazie a quel misto di caso e necessitá tipico della nascita delle migliori etichette. Che non sono quasi mai programmate a tavolino. La scintilla scocca quando, in un hotel di Montego Bay, il giovane Chris sente suonare il pianista non vedente Lance Hayward: decide di registrare una di quelle esibizioni, e nel 1959 esce At The Half Moon Hotel, Montego Bay, primo album della neonata Island. Budget iniziale, un migliaio di sterline.
Dell’altro momento fondamentale nella vicenda si conoscono anche il giorno e il mese. É infatti il 30 dicembre del 1971 quando il ventiseienne Robert Nesta Marley entra nell’ufficio di Blackwell, nel frattempo spostato da Kingston alla piú centrale e redditizia Londra, e cambia le vite di entrambi. Uno é giá una stella del reggae, i suoi dischi con i Wailers dominano le classifiche giamaicane, ma fuori dall’isola é praticamente uno sconosciuto. L’altro ha invece in mano un marchio fra i piú noti e rispettati: ha scoperto e lanciato lo Spencer Davis Group, ha accompagnato il loro fenomeno Steve Winwood verso i Traffic, ha fuoriclasse folk come Nick Drake, Cat Stevens, John Martyn e Fairport Convention, documenta le varie facce della scena rock britannica passando dal progressive di King Crimson e Jethro Tull alle suggestioni hard-blues dei Free, o a quelle glam dei Mott the Hoople.
Blackwell minimizza il suo coinvolgimento, ma numerose testimonianze dicono di come non sia solo il ricco scapigliato che firma assegni. Il suo ruolo é e sará decisivo nella produzione di moltissimi titoli, pur non risultando sempre accreditato ufficialmente, ed é lui uno fra i primi a capire che il mercato sta spostandosi sempre piú verso il formato lungo: “L’album é la differenza fra una canzone e una carriera.”
Ma non é tutto. Chris non ha dimenticato la sua patria adottiva, e in catalogo ci sono anche centinaia di singoli e album ska, rocksteady, reggae e calypso. Ed é proprio il suo lato giamaicano a fargli accettare la sfida: trasformare Bob Marley in prodotto internazionale, renderlo appetibile al pubblico globale mantenendone intatte le peculiaritá, creare la prima pop-star terzomondista della storia. “Fu una scommessa. Gli anticipai 4000 sterline per registrare il primo album, tutti dicevano che ero pazzo e che non avrei piú rivisto quei soldi. Mi presi il rischio e mi fidai, ne sono stato ripagato con gli interessi.”
Quel primo album per il mercato mondiale si intitola Catch a Fire, i Wailers lo registrano a casa e il nuovo datore di lavoro lo fa ritoccare in Inghilterra da un chitarrista e un tastierista bianchi come il latte. Sulla carta un orrore, nei fatti la cosa giusta al momento giusto. Esce all’inizio del 1973, vince la scommessa e apre altre mille strade alla Island: quella del reggae come fenomeno pop, non piú scherzo esotico ma movimento serio e degno di attenzione, con Burning Spear, Toots & the Maytals, Black Uhuru, Steel Pulse e tanti altri; quella del Continente Nero, con i primi dischi di un artista africano – il nigeriano King Sunny Adé – ad uscire su scala planetaria; quella di un’eterogeneitá sempre piú spinta.
Nei ‘70 si aggiungono infatti alla lista i Roxy Music e il Brian Eno solista, i transfughi dei Velvet Underground John Cale e Nico, gli eccentrici Sparks, i colossi progressivi Emerson Lake & Palmer, i tradizionalisti irlandesi Chieftains, emergenti fra punk e new-wave come Ultravox e Slits. Gli ’80 vedono l’esplosione di Grace Jones, protagonista atipica e sottilmente inquietante della dance mondiale (“Avevo idea del suono che volevo: in studio appesi una sua gigantografia a un muro, e dissi a lei e al gruppo che dovevamo fare un disco che suonasse come quell’immagine cosí potente”), l’affermazione di Tom Waits come autore moderno e dai tratti originalissimi.
Ma soprattutto, l’esplosione degli U2. Presi nei pub di Dublino e scortati verso le vette di una fama senza confini. Un amore reciproco: si dice che a un certo punto sia stato il gruppo stesso a salvare l’etichetta dalla bancarotta, posticipando a un enorme credito e prestando al capo un bel gruzzolo, e ricevendo in cambio la proprietá dei master originali dei loro dischi (cosa assai rara) e il 10% delle azioni della compagnia. Compagnia che nel 1989 viene ceduta alla major Polygram, e che nei ’90 cala ancora vari assi (Pulp, PJ Harvey, Cranberries, Tricky, Orb, Nine Inch Nails) prima dell’abbandono definitivo del fondatore nel 1997. Oggi resta il marchio, di proprietá del gigante Universal, e si festeggia con una mostra di foto e memorabilia, un libro (Keep on Running – The Story of Island Records) e una settimana di concerti londinesi a fine maggio.
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DISCOGRAFIA CONSIGLIATA
TRAFFIC John Barleycorn Must Die (1970)
L’organo e la chitarra del giovane prodigio Steve Winwood, al servizio di una fusione ispiratissima di rock, soul, folk, psichedelia e jazz. Verrà chiamato jazz-rock, e questi sei pezzi ne sono uno degli atti fondativi.
NICK DRAKE Pink Moon (1972)
Struggente atto finale nella breve carriera di Drake, morto giovane per overdose di pillole, trascurato in vita e solido culto postumo. Solo voce, chitarra acustica e un po’ di piano: ancora oggi un modello per quasi tutti.
BRIAN ENO Another Green World (1975)
Lasciati i Roxy Music, Eno sintetizza strutture pop e minimalismo, dando ritmo e melodia a un suono che sta già diventando ambient. Un sogno ad occhi aperti, insieme colto e immediato, che potrebbe uscire domani.
BOB MARLEY & THE WAILERS Exodus (1977)
Nell’anno del punk, il disco che certifica la statura di Bob come icona della musica di protesta, esaltandone insieme le potenzialità pop. “Jamming”, “One Love/People Get Ready” e la stessa “Exodus” le prove piú lampanti.
GRACE JONES Nightclubbing (1981)
Prototipo spiazzante di diva androgina e sensuale, Grace Jones è la ciliegina sulla torta di un suono che incrocia disco mutante, algida new-wave e ritmi reggae, cesellato fra gli altri dai maestri giamaicani Sly & Robbie.
TOM WAITS Swordfishtrombones (1983)
Lo spartiacque fra il crooner romantico di prima e il Waits incontrollabile della maturità: da qui in poi tutto si fa piú surreale, visionario, primitivo, libero. Una sorpresa fatta di ottoni e percussioni, ululati e sospiri.
U2 The Joshua Tree (1987)
Equilibrio perfetto (e mai piú raggiunto) fra spontaneità post-punk degli esordi, tentazioni sperimentali, fascinazioni americane, introspezione e innato afflato epico. E un trittico iniziale dal fascino tuttora intatto.
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