
THE JUAN MACLEAN
More Than Human
Rhode Island, il più piccolo fra i cinquanta Stati Uniti. Sessanta chilometri di larghezza e settantasette di lunghezza in cima alla costa orientale, una superifice di poco maggiore di quella della Valle d’Aosta. È lì che questa storia comincia. È a Providence, capitale e città universitaria, che nel 1990 nascono intorno a un nucleo centrale composto da Jeremiah Ryan, Rick Pelletier e John MacLean i Six Finger Satellite. Uno di quei gruppi che hanno raccolto in vita meno di quanto meritavano e di quanto non abbiano fatto successivamente, nonostante una carriera passata sotto l’ala protettiva di una delle etichette indipendenti più celebri e stimate di tutti i tempi. Tutti o quasi i loro dischi escono infatti per Sub Pop: Weapon è il primo singolo, nel 1991; Law of Ruins è l’ultimo di quattro album veri e propri, nel 1998. La discografia della band accompagna la casa di Seattle dal boom del grunge agli anni meno felici della crisi (economica e di identità), quando il logo bianco e nero lentamente sparisce dalla mappa fino a rischiare l’estinzione.
Certo i Six Finger Satellite non sono proprio quello che il grande pubblico si aspetta da chi ha lanciato le carriere di Nirvana e Mudhoney: musicalmente avanti, fautori di un post-punk ossessivo e potente nel quale col passare del tempo diventano sempre più fondamentali i sintetizzatori, ben prima che termini come disco, electro, kraut e funk vengano (nuovamente) sdoganati nei circoli indie-rock. Roba che se uscisse adesso sarebbe attualissima e passerebbe in televisione, si dice in questi casi. E forse un nesso c’è, se di quei Six Finger Satellite ci ricordiamo anche per altri motivi, puramente biografici: il loro produttore e fonico, negli ultimi tempi, è James Murphy. John MacLean, poco dopo la sua uscita dal gruppo alla fine del 1998, si ribattezza The Juan MacLean e diventa uno dei più interessanti produttori dance del nuovo millennio, accasandosi proprio presso la DFA dello stesso Murphy. E mentre i Six Finger Satellite – sciolti nel 2001, riformati nel 2008 senza Giuan – annunciano un imminente nuovo album, il nostro dà un degno seguito all’ottimo Less Than Human (debutto sulla lunga distanza del 2005) con The Future Will Come, in uscita a fine mese e portatore di un buon numero di novità. Al telefono con John partiamo però dal passato.
Quando hai deciso che il tuo futuro sarebbe stato nella musica da ballo, più che nel rock? C’è stato un momento in particolare, o è stato un processo lento e meditato?
Ho lasciato i Six Finger Satellite nel 1998, la scena rock indipendente degli Stati Uniti mi aveva molto annoiato, non aveva più alcun interesse per me. Un paio di anni dopo mi sono ritrovato ad ascoltare esclusivamente dance, era l’unica cosa che trovavo interessante. Al tempo mi piaceva moltissimo Aphex Twin: non sembrerebbe un’influenza così ovvia su quello che faccio, ma era davvero grande, rivoluzionario. Nulla aveva suonato come suonava lui, fino a quel momento. E poi le cose più ovvie, certo, come Homework dei Daft Punk. Ho realizzato che mi sarebbe piaciuto molto entrare in quella scena, riprendendo a produrre musica elettronica come già avevo fatto in passato. E così, intorno al 2000, è successo.
L’interesse per quei suoni nasce quindi molto prima, giusto?
Nasce dall’essere un grande fan dei Kraftwerk. Più o meno nel 1991 ho letto un articolo su di loro su una rivista, un articolo che parlava di quanto avessero influenzato tutta questa gente che a Detroit stava facendo techno. È li che ho scoperto questo tipo di musica. Sono andato subito in un negozio, e il primo disco techno che ho comprato è stato No UFOs dei Model 500 di Juan Atkins (e qui è il punto in cui all’intervistatore non viene in mente una domandina semplice semplice sullo pseudonimo scelto dal nostro, possibile omaggio al leggendario Originator detroitiano – ndr), perché veniva citato proprio in quell’articolo. Da lì sono partito, scoprendo quindi la techno di Detroit, la prima house di Chicago e tutto il resto. Sono andato avanti da lì.
Cosa catturò la tua attenzione in quell’articolo? E cosa ti aspettavi di sentire in quel disco?
Mi aspettavo che suonasse… avevo più o meno cancellato quel tipo di musica prima di allora, perché arrivavo da un retroterra rock. Solo quando ho cominciato ad ascoltare quei dischi pensando alle loro influenze, e quindi ai Kraftwerk e al synth-pop europeo per esempio, ho potuto capirli sul serio. Non penso che sapessi cosa aspettarmi, sapevo solo che mi piacevano le cose da cui era influenzato. E quando l’ho sentito suonava benissimo.
Ma venivi dal rock, come hai detto, e al rock sarebbe stata dedicata di lì a poco la tua carriera musicale. Anche se i Six Finger Satellite avevano una decisa impronta elettronica, evidente soprattutto negli Stati Uniti del grunge e dei suoi derivati.
Esatto, con i Six Finger Satellite usavamo molta elettronica. Avevamo sintetizzatori analogici, combinavamo dance, beats ed elettronica con rock chitarristico e noise. Per me è sempre stata un’influenza, anche quando suonavo principalmente in un gruppo rock.
Il tuoi primi singoli per DFA, By the Time I Get to Venus e You Can’t Have It Both Ways, sono del 2002. Nel 2005 è arrivato il primo album, e quindi un lungo silenzio, finalmente rotto dal singolo Happy House lo scorso anno e oggi dal nuovo album. Cosa hai fatto in questi quattro anni?
Dopo Less Than Human sono andato subito in tour e ci sono rimasto un bel po’, ho portato in giro l’album dal vivo con la mia band - Jerry Fuchs alla batteria, Nick Millhiser alle percussioni e alle tastiere, io e Nancy Whang alle tastiere e alle voci - per un anno e mezzo. Poi sono tornato e ho ricominciato a fare solo il dj a tempo pieno. Per un paio di anni non ho fatto altro, e mi sono dimenticato che prima o poi avrei dovuto registrare un nuovo album. Ero sempre via, fra tour col gruppo e impegni da dj.
Gli altri dj hanno comunque apprezzato moltissimo Happy House, una delle tracce più suonate e ballate dello scorso anno, tuttora nelle playlist di molti e posta oggi in chisura di The Future Will Come. È lei che ha influenzato il clima dell’album, oppure tutto il disco è nato nello stesso momento ed è solo uscita prima come anticipazione?
L’album è stato scritto e registrato tutto insieme, nello stesso momento, Happy House è stata solo un’anteprima. Non facevo uscire dischi da tanto tempo, volevo tornare sui radar con una nuova uscita, e preparare il terreno alla pubblicazione del resto del disco.
Ascoltata da sola però, oltre che un segnale di vita importante, è stata anche una piacevole novità. In pochi si sarebbero aspettati un ritorno così fresco e diverso dal tuo suono classico.
La canzone, e tutto il resto di The Future Will Come, sono molto influenzati dall’essere stati tanto tempo in tour come gruppo. Happy House è il suono della mia live band, e soprattutto per questo penso che suoni così diversa dalle mie cose più vecchie. Il nuovo materiale è frutto di un lavoro di gruppo. Dopo essere stati in giro insieme per così tanto tempo, sapevo di voler fare un disco con loro, un disco capace di suonare più live del primo. Così ho scritto e registrato le canzoni per conto mio, poi le ho portate in studio e ne abbiamo risuonato tutte le parti come un gruppo. Il disco è quasi totalmente suonato dal vivo.
Ne è venuto fuori un disco house sognante e pop, laddove Less Than Human era invece più grezzo, sincopato e funk. Il rinascimento cosmic portato avanti da gente come Lindstrøm sembra molto vicino.
Amo Lindstrøm, ha anche remixato un pezzo del mio primo album, e adoro tutta quella roba, che tende ad essere più melodica e spaziale. Così come la italo disco e Giorgio Moroder ovviamente, altre mie grosse influenze. Per questo disco volevo fare canzoni pop usando elementi della musica dance, ma essenzialmente canzoni. Più corte e orientate verso il pop, meno prettamente strumentali. Pensavo ne sarebbe uscito un album migliore, adatto soprattutto a un ascolto casalingo, concentrato sulla forma-canzone più che sul ballo. Tre tracce (otto minuti e mezzo The Simple Life, dieci Tonight, dodici e mezzo la citata Happy House – ndr) sono molto lunghe, è vero, ma anche loro sono comunque canzoni, compiute e molto melodiche. Sono nate tutte e dieci da un lungo lavoro di scrittura e rifinitura, ho coscientemente cercato di tagliare fuori più roba possibile.
Trattandosi di canzoni: i testi sembrano molto importanti nell’economia dell’album, ed è forse una novità ancora più grossa di quelle sonore per chi vi conosce. C’è un filo conduttore?
Dal punto di vista lirico, il tema portante del disco è un resoconto molto personale dell’effetto che il suonare in gruppi costantemente in viaggio ha sulla mia vita e su quella di Nancy, sulle nostre relazioni. E pensa che lei suona anche negli LCD Soundsystem! Molte delle cose su cui ci siamo trovati a scrivere erano nostre esperienze in relazioni romantiche, accumulate nel corso degli anni, e cosa era loro successo come risultato del suonare in queste band sempre in giro. Fa molto male alle relazioni, diventa molto difficile gestirle.
In effetti, titoli come Accusations o Human Disaster non sono esattamente dance, cose che ti aspetti di ballare in mezzo a centinaia di persone urlanti, ma dicono molto in termini di contenuto. I testi sono opera sia tua sia di Nancy quindi?
Sì. Chi canta in genere ha scritto ciò che sta cantando. Ci siamo letteralmente seduti sullo stesso divano in studio, e abbiamo scritto i testi insieme, rispondendoci a vicenda, avanti e indietro. Come in un dialogo, una conversazione fra due persono che condividono i medesimi problemi.
Potremmo quasi sottotitolare il nuovo album More Than Human, parafrasando il titolo del primo, che dici?
Ci sto. Il primo era decisamente più freddo, non aveva una personalità così presente e umana.
I testi vanno cantati, e ne consegue anche un uso molto maggiore delle voci, forse il tratto più caratteristico del disco. È vero che vi siete ispirati principalmente a Dare degli Human League? Più umani di loro…
Mi sono sempre piaciuti, ma ho sempre considerato solo il primissimo periodo. Quando ho capito che sia sio sia Nancy avremmo cantato molto sulle nuove canzoni, e che avremmo fatto anche un po’ di duetti veri e propri, la prima cosa che a venirmi in mente sono stati loro, quando le ragazze sono entrate in formazione. Così ho scavato da quelle parti, per la prima volta in anni e anni, e sono stato totalmente sconvolto non solo da quanto bene funzionino gli intrecci vocali, ma anche dalla strumentazione usata, da quanto sia economica la produzione e da come siano compatte e poppy le canzoni. L’intero disco è diventato un ottimo modello per quello che stavo cercando di fare.
Curioso che nel 2009 tu abbia fatto un disco per tua stessa ammissione molto umano e sentito, ispirandoti a un classico di quella che ai tempi, per noi rocker, era la musica finta e plastificata per eccellenza. Il disco di Don’t You Want Me!
Anche io, quando suonavo e ascoltavo rock, avevo catalogato Dare come musica pop molto sterile e sintetica. Proprio per quello non gli ho mai prestato molta attenzione, preferendo gli Human League sperimentali degli esordi.
E quando fai il dj invece? Cosa ti piace suonare?
Oddio… tendo a suonare così tanta roba vecchia in realtà… prima house, prima techno. Un pezzo immancabile da qualche tempo è Blind di Hercules And Love Affair, suono sempre il remix di Frankie Knuckles.
Fedele alla linea DFA dunque. Come hai conosciuto James Murphy? Sappiamo che era il fonico dal vivo dei Six Finger Satellite, e che Death From Above in origine era il nomignolo che aveva dato al set up dell’impianto studiato apposta per voi, a quanto pare potentissimo.
Lo conosco dal 1990, più o meno. Quando ci siamo incontrati, stavamo entrambi aprendo il nostro primo studio e cominciando a registrare gruppi, la cosa su cui abbiamo fatto amicizia all’inizio è stata quella. Poi James è diventato il nostro fonico dal vivo, esatto, e lo è stato per molti anni. Ci siamo trovati bene perché avevamo gusti musicali molto simili, e la stessa mentalità sul fare dischi, sul registrarli, sul voler diventare fonici di studio. Invece di parlare di volerlo diventare, e di come diventarlo, abbiamo entrambi costurito il nostro studio e via, lo abbiamo fatto! Anche se all’epoca sembrava una cosa abbastanza da pazzi. Come mettere su un’etichetta come DFA, per esempio…
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