SINTETIZZATORE AMORE MIO
La nuova sfida dei Matmos fra passato e futuro

Un disco fatto esclusivamente di sintetizzatori. Dopo l’excursus nella storia nordamericana di The Civil War (2003) e la galleria di ritratti/omaggi a tema gay di The Rose Has Teeth in the Mouth of a Beast (2006), il nuovo album dei Matmos nasce ancora una volta in mezzo a paletti che ne definiscono a priori il contenuto. Questa volta, però, dal punto di vista strettamente tecnico più che concettuale. Come detto, Supreme Balloon è infatti un lavoro realizzato dal duo elettronico/sperimentale statunitense con il solo ausilio di sintetizzatori più o meno d’epoca, macchine dai nomi evocativi di un passato che sapeva di futuro: Arp, Korg, Roland, Waldorf, Moog, Electro-Comp, Doepfer, Akai, Suzuki. Oppure quello Stylophone della Dubreq lanciato come giocattolo per bambini nel 1967, o quella batteria elettronica Taal Mala indiana, che fornisce il tappeto di tabla sul quale si sviluppano i ventiquattro minuti del brano che intitola il disco.
Insomma, si tratta davvero di “una vendetta contro tutti quei dischi dei Queen che nelle note di copertina dicevano ‘E nessuno ha suonato il sintetizzatore!’”, come recita il comunicato stampa? Dei divertiti Drew Daniel e Martin Schmidt confermano: “C’è stato un momento, alla fine degli anni ’70, in cui la gente pensava che i sintetizzatori avrebbero sostituito tutti gli strumenti, e principalmente i violini. C’era anche una striscia di Doonesbury al proposito, dove un tipo che lavorava in uno studio di registrazione spiegava al protagonista che non usavano più musicisti, ‘abbiamo solo un synth!’. Adoriamo l’illusione di questo robot mostruoso che distrugge l’arte. Forse i Queen avevano la stessa cosa in mente… al tempo i sintetizzatori erano un futuro che non si conosceva quasi per niente, e spaventava. Erano un sogno bellissimo e un incubo orribile. Adesso invece non danno l’idea di futuro, anzi. Sono oggetti vintage.” Cosa li rende così speciali da dedicare loro un disco? “La loro flessibilità. È come fare una piccola scultura da una graffetta per la carta, la puoi piegare in tutte le direzioni. Ma c’è anche qualcosa di più delicato e forse più sciocchino nei presupposti stessi dell’oggetto. Non è come suonare la batteria o la chitarra, non ha intorno la stessa mitologia aggressiva e un po’ macho. C’è qualcosa di ridicolo nei suoni che un sintetizzatore genera. Certo puoi ricavarne un rumore scuro e spaventoso, come nelle colonne sonore dei film di John Carpenter, bellissime e inquietanti, ma anche in quel caso c’è qualcosa di leggermente artificiale all’apparenza, e ci piace quell’artificio. Alcuni sono alla ricerca di cose che siano calde e organiche, e proiettano questo bisogno sui sintetizzatori analogici, che diventano così caldi e organici, ma non penso sia necessariamente vero. È retorica.”
L’approccio alla materia è quindi serio e meditato, come sempre. Anche se è l’improvvisazione la base di Supreme Balloon: “Abbiamo cominciato creando dei suoni che ci piacessero, portando quindi i vari sintetizzatori ad amici ai quali chiedevamo di suonare un assolo, un’improvvisazione. Su quel materiale abbiamo lavorato, convertendolo in canzoni pop. Abbiamo campionato, manipolato e spezzettato tutto con il computer. Sotto molti aspetti è il modo di lavorare solito dei Matmos, ma è anche una sorta di action painting. Siamo andati da qualcosa di molto spontaneo a qualcosa di molto strutturato, ed è bello avere questo tipo di tensione nella musica. Stai lasciando decidere ad altri molto di ciò su cui dovrai poi lavorare.” Mica sconosciuti, gli amici di cui sopra: Marshall Allen della Sun Ra Arkestra, il guru del minimalismo Terry Riley, i rumoristi Wobbly, Jay Lesser e Keith Fullerton Whitman, la pianista classica Sarah Cahill. “Sono contatti che arrivano quasi tutti da concerti fatti. Abbiamo suonato all’ottantesimo compleanno di Terry Riley, e in programma c’era anche Sarah, che è bravissima. Appena l’abbiamo sentita, abbiamo pensato che avremmo dovuto fare un suono e chiederle di suonarlo, e il risultato è Les folies françaises (un brano del 1722, del compositore barocco francese François Couperin – ndr). Con Marshall Allen abbiamo suonato a Los Angeles, un nostro amico ha organizzato un concerto in cui avremmo dovuto improvvisare insieme. All’inizio avevamo paura, non volevamo accettare: eravano in imbarazzo, siamo improvvisatori molto meno abili di lui. Ma abbiamo pensato che sarebbe stato bello farlo, e superando le nostre paure lo abbiamo fatto. In Mister Mouth Marshall suona l’EVI, un oscillatore controllato con il respiro che suoni con le dita come suoneresti una tromba o un sassofono, soffiandoci dentro. Ci ha dato qualcosa come venti minuti di assolo… che noi abbiamo condensato, come un caffè espresso!”
A proposito di strumenti insoliti, però, nulla batte il Coupigny. Macchina scovata a Parigi, prodotta in un unico esemplare e usata in passato dai protagonisti della musique concrète. L’emozione è ancora palpabile: “Oh mio Dio, quello è davvero un sogno da nerd! Siamo stati invitati dall’INA/GRM, la fondazione creata da Pierre Schaeffer e diretta oggi da Christian Zanési. Hanno sentito parlare di noi ed hanno deciso di offrirci del tempo nel loro studio. Fino anche solo a quindici anni fa, poter usare uno studio così bello era qualcosa di importante, e di molto costoso. Oggi invece non c’è nulla che non avessimo già a casa. Ma a un certo punto abbiamo chiesto cosa avessero in cantina: ‘Abbiamo questo vecchio sintetizzatore che nessuno usa’, ci hanno risposto. Ed era il Coupigny! È come l’Arca dell’Alleanza… ‘Cosa avete quaggiù? Oh, avete le tavole di Mosè, ok.’Da quando lo abbiamo rispolverato pare che tutti lo vogliano usare… e fanno bene, è fantastico!”
Non se ne parlerà forse nell’Antico Testamento, ma di certo le radici del sintetizzatore sono ormai lontane nel tempo. Diverse le epoche attraversate dallo strumento, diverse le suggestioni sonore, diverse le ispirazioni che hanno guidato Daniel e Schmidt durante la realizzazione del disco: “Exciter Lamp and the Variable Band, ad esempio, è un omaggio a Norman McLaren, autore di film di animazione canadese attivo fin dagli anni ’30. Aveva scoperto che disegnando piccole linee sulla banda ottica della pellicola si producono dei suoni, e molte delle colonne sonore dei suoi film hanno questi ritmi eccezionali, quasi swing. Abbiamo cercato di rendere con il sintetizzatore quel tipo di musica. Inoltre, McLaren era gay, ed in questo senso è come se il pezzo fosse un’appendice del nostro album precedente.” Ma ci sono tanti riferimenti musicali, soprattutto: “Avevamo in mente cose come The In Sound from Way Out di Perrey and Kingsley, o le prime cose dei Mother Mallard’s Portable Masterpiece Company. Se si guardano i dischi a base di sintetizzatore usciti fra gli anni ’60 e gli anni ’80 si nota una serie interessante di cambiamenti nell’estetica. Perrey and Kingsley e in un certo senso Wendy Carlos erano la novità assoluta del momento, con suoni nuovi potevano fare musica strumentale orecchiabile. Quando forme di rock psichedelico e progressivo cominciarono ad esere applicate all’elettronica, le canzoni diventarono sempre più lunghe ed ambiziose, e nacque la space music di Vangelis e Klaus Schultze. Volevamo fare un disco che unisse questi mondi e periodi diversi. Per questo la prima metà del disco è più sixties e la seconda metà guarda invece ai ‘70. Molti pensano che la prima metà sia kitsch, ma per noi è assolutamente sincera, amiamo quella musica! È troppo facile fare un rumore infernale. È divertente se lo sai fare bene, ma per noi è più divertente prendere qualcosa di abbastanza astratto, come degli assoli improvisati, e trasformarlo in musica pop. È una sfida.”
Un gusto per la sfida che, come si diceva in apertura, caratterizza la discografia dei Matmos quasi da sempre. “C’è una ragione, se ogni nostro disco ha un tema forte e delle regole: è per evitare la crisi della pagina vuota. È una tecnica che usiamo per cominciare a muoverci in una direzione. Se creiamo delle regole per definire cosa non faremo, è più semplice. D’altro canto, siamo anche entrambi molto influenzati dall’arte concettuale. Ma è anche un po’ colpa nostra, in fondo, perché ne parliamo troppo: a volte, scherzando, ci diciamo che dovremmo fare un disco con un concetto molto intenso, strutture rigide e quant’altro, ma non dire a nessuno quale sia. E vedere se qualcuno se ne accorge o no.”

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