
DON’T LOOK BACK
In giro con The Mojomatics
Colonia, 2 giugno. Tsunami Club. Concerto finito, gruppo sparso fra un backstage soffocante, un palco da sgomberare con la poca voglia che si ha in questi casi e un bancone del bar più accogliente di entrambi. Su un telefono arriva un messaggio crudelmente sintetico: “È morto Bo Diddley”. Fuori, su in strada, l’afa della giornata si trasforma in diluvio.
Reduci dalla pubblicazione di un terzo album potente e ispirato come Don’t Pretend That You Know Me, uscito per Ghost e recensito su queste colonne con giustificata enfasi, i Mojomatics sono grossomodo a metà del loro tour europeo. La notizia li colpisce nel profondo: “È stato l’ispiratore. La base di un certo r’n’b che si è trasformato in garage-punk nei ‘60. Ha influenzato tutti, dai Rolling Stones ai Pretty Things a una miriade di band americane. E anche noi, ovviamente. È morto uno dei pilastri, con Chuck Berry, del suono che ci piace.” Destino curioso quello del vecchio Bo, unanimemente riconosciuto come padre del rock’n’roll. Famoso per la sua eccentricità e la sua chitarra rettangolare, ma soprattutto per il Bo Diddley beat, un ritmo. Tuttora utilizzatissimo, dai club più sotterranei alle classifiche. Bizzarro, per uno che canta e suona la chitarra: la sua canzone tipica, replicata all’infinito e ogni volta irresistibile, ha un solo accordo e un inconfondibile incedere di batteria a sostenerlo, e con quello cambia il mondo. Il dispiacere lascia quindi spazio a una serena consapevolezza: quello che doveva fare su questa terra, Bo Diddley l’ha fatto eccome. E vivo o morto, per quello sarà ricordato con affetto e riconoscenza.
Ma attenzione a non tirare troppo in ballo il passato parlando dei Mojomatics. L’amore per una serie di radici musicali è evidente, e li ha resi uno dei nomi più caldi della scena garage italiana ed europea. Ma la maniera di dimostrare tale amore - ed è anche per questo che siamo in furgone con loro, su e giù per impeccabili e gratuite autobahn - supera di slancio le secche del revivalismo. E a mescolare ulteriormente le carte giunge l’attualità più stretta: il duo è diventato un trio, ora c’è un bassista, ed è novità sostanziale anche per il profilo del nuovo arrivato. A Matteo Bordin (voce e chitarra, 26 anni, trevigiano di Montebelluna) e Davide Zolli (batteria, 28 anni, veneziano) si è infatti aggiunto poco prima dell’inizio del tour Gabriele Boi. Sardo di Guspini, 29 anni, che fino all’anno scorso lo stesso ruolo ricopriva in un altro grande marchio garage da esportazione come i Rippers, ma che è stato anche voce e chitarra dei June (pop delizioso fra Beatles, Love e Belle & Sebastian) ed è tuttora una delle forze motrici di un’etichetta eclettica e degna di attenzione come Here I Stay. Gli hooligan della bassa fedeltà si scordino pure ogni idea sul duo chitarra/batteria come scelta di vita: “Era da un po’ - spiega Matt - che volevamo aggiungere il basso. Anche mio padre, che era un bassista in gruppi hard-blues alla Cream/Black Sabbath, me lo diceva: ‘Dove andate senza basso?’ Suonare sempre e solo in due, uno strumento e una ritmica, è molto limitante. Il nuovo disco poi è stato concepito e registrato anche con il basso, e ci siamo trovati a fare concerti in cui i pezzi nuovi non reggevano. Abbiamo suonato a Cagliari in aprile, parlandone un po’ per scherzo Gabri si è detto subito disponibile e… nel giro di una settimana è successo! Lo conoscevamo da tempo, i Rippers avevano registrato nel mio studio (l’Out Side In Side di Montebelluna, con equipaggiamento interamente analogico – ndr), avevamo suonato insieme a loro e fatto dischi per la stessa etichetta, Shake Your Ass.” Continua l’interessato: “I Mojomatics sono una delle mie band preferite in Italia e non solo. Mi piacciono le loro canzoni, il loro stile, il loro percorso musicale. Io stavo scrivendo roba simile, per mettere su un’altra band con cui fare ciò che sto facendo adesso con loro. Ho detto sì all’istante, senza pensarci un attimo: ‘Sto già facendo le valigie’. Le ho fatte e sono partito. Ho trovato la mia band.”
I pezzi nuovi sono liberi finalmente di rendere appieno, quelli vecchi prendono aria. Matt: “Li abbiamo riadattati. Ho cambiato le parti di chitarra, non sono più costretto a fare sempre la ritmica, le parti di basso. Li stiamo rielaborando ogni sera.” Per il momento, in scaletta ne compaiono uno del primissimo ep (Devil Got My Woman, 2003), due del secondo album (Songs for Faraway Lovers, 2006) e nessuno del primo (A Sweet Mama Gonna Hoodoo Me, 2004). Ma l’intenzione è quella di ripescare anche da lì. “Siamo ancora all’inizio – conclude Davide – e dal vivo è molto diverso. Non abbiamo avuto molto tempo per provare, ma ci piacerebbe arrivare ad arrangiare meglio i pezzi. Fare un concerto più vario, articolato, con arrangiamenti più curati e magari anche qualche chitarra acustica. Fino ad ora, con chitarra elettrica e batteria, puntavamo sulla potenza, sull’impatto, sul darci dentro.”
Non che nella nuova configurazione l’impatto manchi, anzi. Tra i muri rossi dello Tsunami, con amplificatori Marshall d’annata disposti in perfetta simmetria, i tre sono energia pura. Di nero vestiti, con camicie a sbuffo e scarpe a punta, ma l’estetica è ciliegina sulla torta, non posa. La ragion d’essere, la sostanza, sono canzoni che su disco affascinavano e qui esplodono. In un insieme che amalgama perfettamente la spavalderia dei primi Jam, la freschezza beat-punk dei misconosciuti Hi-Fives (tre grandi album su Lookout! fra ‘95 e ‘98), le progressioni garage-punk più classiche, il pop senza tempo di Beatles e Kinks, il lirismo dei Dream Syndicate e di tante band australiane degli ‘80, le visioni del giovane Dylan elettrico, le atmosfere antiche di folk, country, blues e rock’n’roll. E l’adrenalina dal risvolto triste dei Remains di Don’t Look Back, classico del suono americano dei ‘60 e insieme fulgido esempio di superamento dei canoni del genere.
La rottura del pedale della batteria non incide troppo sull’andamento del concerto, il gruppo sta sul palco con sicurezza e pare un trio da sempre, e chiude con un medley che tratta Robert Johnson (If I Had Possession over Judgement Day), Big Joe Williams (Baby Please Don't Go) e Leroy Carr (How Long, How Long Blues) con dosi eguali di rispetto e violenza. Ma la parte del leone la fa una serie di episodi veloci caratterizzati dalla predominanza di accordi minori di chitarra, suonati pieni e senza ritegno. Sono soprattutto questi e le melodie vocali conseguenti a fare le canzoni, a dare quel tocco malinconico di cui sopra, che per strade neanche troppo tortuose porta persino agli Hüsker Dü. Eresia? Sovente un gruppo, nell’intimità della sala prove, usa come titoli provvisori i nomi dei gruppi che le canzoni nuove ricordano. E proprio Hüsker Dü si è intitolata per un po’ Wait a While, strepitosa apertura dell’ultimo album e video in rotazione sui canali musicali, con tiro da levare il fiato e stacchetto in controtempo che nemmeno i Nofx. Ma che allo stesso tempo pare una murder ballad country sparata a velocità tripla, sommersa dalla distorsione.
“L’uso di accordi minori - spiega Matt - viene dal folk. Moltissimi nostri pezzi, anche quelli più punk, se li suoni solo con chitarra acustica e voce sono pezzi folk. Ballatone folk sparate. Un punto di riferimento per le melodie sono i Byrds, mio gruppo preferito in assoluto, e lì i minori si sprecano.” “I minori sono sentimento!” aggiunge Davide, e Gabri conferma: “Anche qui ci siamo trovati perfettamente. Adesso che abito in studio da Matt e passiamo molto tempo insieme, mi sta facendo conoscere un sacco di cose che non conoscevo e che mi hanno colpito. Tipo Townes Van Zandt, o i primi dischi dei Byrds, ai quali avevo sempre dato ascolti un po’ superficiali. E invece sono capolavori.”
Byrds che chiudono il cerchio con Mould e Hart, per la storica cover che questi fecero di Eight Miles High e per le innegabili e ormai acclarate affinità sonore. Byrds che occupano gran parte di un vecchio numero di Uncut che gira in furgone, e che i vari iPod mandano verso l’autoradio mentre ci si sposta a Münster, dopo una rapida visita all’inquietante duomo di Colonia. Si ascoltano anche Dead Meadow, Dream Syndicate, jazz e blues d’annata, e si arriva a metà pomeriggio al Gleis 22. Tipica via di mezzo tedesca fra centro giovanile e locale, in una tipica città tedesca di media grandezza dove tutti girano in bicicletta, e tutti i marciapiedi hanno piste ciclabili. Da Green Hell, storico negozio a due passi dal posto, troviamo il nuovo numero di OX con Don’t Pretend That You Know Me secondo nella classifica della maggiore rivista punk tedesca. Sui muri del camerino i nomi di chi è passato di lì: Hives, Motorpsycho, Nashville Pussy, Blood Brothers, Unsane, El Guapo. Il soundcheck serve ancora per sistemare i dettagli della nuova formula a tre: Gabri ha comprensibilmente un approccio più meticoloso, Matt più istintivo, più disposto a sfruttare le opportunità anche casuali (pronostichiamo l’imminente comparsa di un microfono per lo scatenato bassista, che sa cantare e già raddoppia le voci come se lo avesse) offerte dal suonare ogni sera in un posto diverso lontano da casa. Ma quando è il momento, tutto funziona già molto bene. Aprono i californiani Rock’n’Roll Adventure Kids, duo lo-fi che passa abbastanza inosservato. I nostri seguono scaldando il buon pubblico presente con una doverosa dedica a Diddley e la consueta miscela di impeto e pop, e facendosi richiamare sul palco per ben due volte. Il banchetto, gestito dal manager Franz e dall’autista/roadie Biglee, vende come sempre in Germania più vinili che cd. Un falafel notturno chiude le danze.
Non è il primo tour europeo dei Mojomatics. Ce n’è stato uno di un mese nel 2005 con The King Khan & BBQ Show, date in Serbia, Svizzera, Austria, Olanda, Germania, Svezia, Francia e Belgio; ce ne sono stati tre più brevi fra 2006 e 2007 in Germania, Francia e Scandinavia; c’è stata una ventina di date sparse fra festival, showcase ed occasioni assortite. È però il primo tour non strettamente limitato al circuito garage. Come reagisce chi amava i Mojomatics degli esordi? “Abbiamo sempre avuto - spiega Davide - una vena pop, la canzone è sempre stata alla base di tutto. Certo si era solo in due e si suonava un po’ più marci, ma chi si è innamorato di noi per le canzoni è sempre contento, non nota molta differenza. Chi ci seguiva per il discorso lo-fi invece adesso storce un po’ il naso. Qualcuno ci ha detto che eravamo meglio in due. Ho chiesto il perché a un tipo proprio ieri sera, e mi ha risposto ‘Perché eravate più trash’. È vero che nei primi tour è capitato di suonare con impianti di merda, in posti scassati, con gente che faceva casino, e abbiamo fatto concerti forse più trash. Ma adesso è difficile che succeda, siamo in tre e i suoni sono migliori. È difficile che venga fuori della spazzatura…”. Più categorico Matt: “Non abbiamo mai voluto essere un gruppo trash! Nel giro garage c’è lo stereotipo del duo che deve per forza fare blues ed essere sgangherato. Non importa che canzoni fai, basta fare casino. Alla gente la canzone interessa fino a un certo punto. Sono sempre i soliti due o tre stereotipi: suonare alla cazzo, fare la cover dei Sonics… basta!”
Discorso che approfondiamo, mentre si va verso Amburgo al suono di R.E.M. e Neil Young. È evidente come il gruppo non voglia rinchiudersi in un solo genere per un solo pubblico, lo dice la sua evoluzione costante. Anche se Matt non è del tutto concorde: “Ho riascoltato da poco i tre album, e non ho sentito questo gran salto. Il primo è stato fatto molto velocemente con un otto tracce e quattro microfoni, è il più immediato e lo-fi. Per il secondo eravamo in fissa con il country-folk. Il terzo ha un po’ di questo, un po’ di quello e un po’ d’altro, ed è più pop. Abbiamo uno studio migliore rispetto a una volta, mezzi migliori. Ci siamo presi più tempo per scriverlo e registrarlo, per fare un lavoro più curato. È anche il primo album registrato in un lasso di tempo breve, nello stesso posto, con gli stessi suoni. Una volta ci si trovava per le prove, si faceva il pezzo nuovo, visto che eravamo già in studio lo si registrava, e lo si lasciava là. Quando ne avevamo un certo numero usciva il disco. Il secondo album è già più organizzato come contenuti, ma è comunque realizzato nel corso di un anno, in varie sessioni. Con Don’t Pretend That You Know Me le cose cambiano. C’è meno blues, ma è una cosa momentanea: ne ascoltiamo sempre molto, ma ultimamente salta fuori più l’influenza del pop e di certo punk tipo Jam o Buzzcocks. Abbiamo anche registrato due pezzi nuovi con Gabri, e sono già molto diversi. Uno è sixties, garage abbastanza classico; l’altro è più ricco, ha sassofoni, pianoforte, lap steel, quasi alla Kinks ma con una melodia rubata a John Coltrane!”
L’Hafenklang di fronte al quale posteggiamo non è quello di sempre. La vecchia sede in riva all’Elba è in ristrutturazione, e le iniziative si svolgono temporaneamente in un edificio nei paraggi sempre ad Altona, quartiere limitrofo alle luci di Sankt Pauli. Il cielo sembra più alto, ad Amburgo. La gente beve caffè al sole e al vento seduta ai tavoli fuori dal locale, nella sala concerti sotterranea sono impegnati nel soundcheck i New Christs. Proprio la band creata negli ‘80 dal mito vivente Rob Younger, già voce dei Radio Birdman. Stasera i Mojomatics aprono per l’ultima resurrezione di una sigla più sotterranea, ma quasi altrettanto leggendaria. Al basso c’è l’altro veterano Jim Dickson, già con Barracudas e Radio Birdman stessi negli ultimi tour post-riunione. E se la prima impressione, nella sala vuota, è quella di un gruppo fracassone e un po’ triste, il concerto sarà tutt’altro. Fuori dal tempo, ma puro e coinvolgente. Vecchi classici, suono granitico e un Rob che sul palco è a casa sua come sempre. Matt, Gabri e Davide ricambiano l’entusiasmo degli australiani durante il loro set, e ad amplificatori spenti sono complimenti reciproci. “I Mojomatics - dice un serafico Younger - hanno grandi canzoni. Sono intensi, ma con ottime melodie. Suonano bene, e sono belli da vedere sul palco. Le ragazze ballavano, ed è una cosa molto importante.”
La mattina seguente ci si sveglia con calma. I New Christs hanno lasciato l’appartamento dei gruppi di prima mattina, gli italiani hanno di fronte solo poche ore di autostrada per Berlino. Ci si rilassa sui divani dell’Hafenklang, con la solita abbondante colazione che in Germania è consuetudine preparare per chi è in tour. E una consuetudine più recente ma altrettanto gradita, il wi-fi gratuito a disposizione dei vari laptop del furgone, permette di tenersi in contatto con ciò che succede a casa, come ogni giorno.
Durante il viaggio verso la capitale si ascoltano Beatles, Kinks, Music Machine e i due brani nuovi di cui sopra, uno dei quali (l’ottimo Don’t Believe Me When I’m High) già viene suonato dal vivo. Si entra in città da nord per la Prenzlauer Allee, e ci si inoltra fin sotto la S Bahn sopraelevata di Hackesher Markt, a un passo da Alexander Platz, per trovare il Bang Bang Club. Un bel locale, ma in Germania non è una sorpresa, dove sono in arrivo tra gli altri Born Ruffians e Tapes ‘n Tapes. Sbrigato il soundcheck, altra incombenza: passare a prendere Arish Khan. Per il rocker canadese di origine indiana, le sue varie identità musicali (King Khan, King Khan & The Shrines, The King Khan & BBQ Show, gli estemporanei Ciaoculos con gli stessi Matt e Davide) e la sua simpatia geniale e contagiosa servirebbe davvero un articolo a parte. Miniera di aneddoti - i retroscena di un video che circola su YouTube, in cui lui e i Demon’s Claws suonano di prima mattina in una scuola superiore tedesca, valgono da soli il prezzo del biglietto - e faccia di bronzo suprema, abita poco lontano con moglie e due figlie piccole, una delle quali ha già registrato un 7” con papà. Camicia floreale e collana di ossa, durante il concerto se ne sta abbastanza buono, dopo si scatena.
Con un aereo di primissima mattina che mette fuori gioco il cronista, è Davide a raccogliere il testimone e concludere il reportage: “All’inizio siamo solo io e lui. Si va in un bar sulla Schönhauser Allee, bella atmosfera, bella musica, qualche birra e mille ragazze che lo fermano per dirgli che lo hanno visto suonare e cose così. Poi arriva una e ci dice che c’è Cat Power. Mi giro ed è veramente là seduta con degli altri tipi, tranquilla, nessuno sembra notarla. Ci accorgiamo che il dj è il tipo dei Brian Jonestown Massacre, Anton Newcombe, decisamente fatto. Si è trasferito da un po’ a Berlino, abita sopra il bar e spesso durante la settimana scende a mettere dischi. Pare, e a ragione, che da quando c’è lui il locale sia sempre pieno, di belle ragazze soprattutto. A un certo punto Khan si avvicina e gli chiede se può mettere su i Monks. Lui lo guarda e fa una faccia mega impaurita, come se avesse visto il diavolo. Evidentemente il crack ha fatto effetto. Arrivano gli altri, beviamo un po’ di birre e Khan continua a ripetere che deve andare a parlare a Cat Power, che è troppo bella e gli piace un casino. Noi lo pigliamo per il culo. Nel frattempo arriva la troupe di una TV, che inizia a riprendere la gente che beve e parla. Dopo un po’ Cat Power esce dal locale, un paio di tipe si fanno fotografare con lei e Khan si avvicina. Non so cosa le abbia detto, ma hanno parlato a manetta, lei rideva ed era presa benissimo. Khan le ha mostrato disegni fatti dalle figlie che aveva nel portafoglio. La cosa va per le lunghe e inizia a farsi tardi, andiamo a chiamare Khan per dirgli di andare e lui ci presenta Cat Power. Stiamo ancora un po’ a parlare, di musica e altro. Lei è molto timida, Khan no. Ce ne andiamo con grandi saluti, e Khan ci convince a passare dal Bassy Club, poco lontano, dove c’è una mega festa gay. È riuscito a farci mettere in lista, perchè un barista del locale è suo amico. Entriamo, ed esordisce con il tipo alla porta indicando ognuno di noi: ‘Allora… lui è attivo, lui è attivo, lui è attivo, lui è passivo’. Da ridere. Tanto. Siamo rimasti un bel po’, fra mille personaggi assurdi, drag queen, tipi vestiti di lattice, tipi vestiti da marinai…”
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