
STOCCOLMA CALLING
Peter Bjorn And John e il boom indie svedese
Appena placatasi la frenesia natalizia per Mamma Mia! e per ogni cosa marchiata Abba, con il quartetto schizzato a livelli di popolarità quasi pari a quelli di un tempo, parlare oggi di Svezia e musica pop è come sfondare una porta aperta. Aperta da tempo, fra l'altro: da quattro decenni almeno il grande paese scandinavo sforna nomi buoni per le classifiche di tutto il mondo, più o meno validi artisticamente, ma sempre in grado di rivaleggiare in quanto a vendite con i pezzi grossi anglosassoni. Roxette, Ace Of Base, Europe e Cardigans sono i primi a venire in mente. Ma anche in campo più sotterraneo e di genere lassù non hanno mai scherzato: negli '80 con una pattuglia di agguerrite garage-band, dai Nomads ai Wylde Mammoths; nei '90 con l'hardcore-punk dei Refused, il metal degli Entombed e il rock'n'roll ad alta gradazione degli Hellacopters; nel decennio in corso, soprattutto, con una serie di nomi che hanno imposto definitivamente la scena svedese all'attenzione del pubblico internazionale.
La carica sfrontata degli Hives, l'hard barricadero degli (International) Noise Conspiracy, l'elettronica scura e sensuale dei Knife, la freschezza dei Concretes, la psichedelia senza tempo dei Dungen. E poi tanto indie-pop, dall'ironico bardo delle piccole cose Jens Lekman all'allegra comitiva I'm From Barcelona, dall'intimista José González ai grintosi Shout Out Louds, fino ai gruppi della Labrador e di tante etichette più piccole sulla scia. E poi un elenco di ragazze talentuose che pare non finire mai: Lykke Li, Jenny Wilson, Sally Shapiro, El Perro Del Mar, Robyn e Karin Dreijer Andersson degli stessi Knife, di recente al debutto solista come Fever Ray.
Un insieme eterogeno. Accomunato dall'alta qualità media innanzitutto, e da una sicurezza nei propri mezzi che da un lato permette il mimetismo quasi completo con i contemporanei anglosassoni, e dall'altro esalta un esotismo sottile e irresistibile. Nomi grazie ai quali la Svezia si conferma, forse a parimerito con il Canada, terza potenza esportatrice di musica pop-rock al mondo dopo Stati Uniti e Regno Unito, con la provenienza che si fa garanzia. Ma perchè una nazione tutto sommato periferica di soli nove milioni di abitanti e non la Francia o la Germania, per esempio?
Proviamo a chiederlo a John Eriksson, che in quanto 33% di Peter Bjorn And John ha voce in capitolo eccome. Il loro capolavoro “Young Folks” - con i bonghetti, la voce di Victoria Bergsman dei Concretes e quella melodia fischiettata ormai famosissima - ha rubato molti cuori e riempito molte piste da ballo dal 2006 in qua. Entrando di prepotenza fra i classici pop di tutti i tempi, e rendendo i suoi autori una delle sigle di maggior successo del panorama svedese attuale. La tesi di John è chiara, e non proprio allegra: la Svezia rivaleggia con gli anglosassoni perchè in fondo lo è, anglosassone. “Non abbiamo una cultura forte. Da noi non si ascolta molta musica folk svedese, i vecchi e i giovani ascoltano da sempre musica americana e inglese. Siamo molto influenzati da questi due paesi, e forse per questo ci è più facile scrivere musica dal respiro internazionale. Il retroterra di quasi tutti gli svedesi è il pop-rock, ed è così da moltissimo tempo, ma il discorso si estende anche alla televisione: i film stranieri non sono doppiati per esempio. Certo a volte siamo un po' troppo influenzati dal mondo anglosassone, il che può essere una cosa brutta. Ma la cosa bella è che siamo bravi a fare musica pop.”
Musica che in qualche modo misterioso suona sempre più carina, amichevole e femminile di quella degli omologhi inglesi o americani, al contrario decisamente più aggressiva e maschile. Ci si prende meno sul serio lassù? La vita è più rilassata? “In campagna la gente è più rilassata sicuramente, ma a Stoccolma è molto stressata. Buona domanda comunque, ma non saprei cosa rispondere... forse, essendo svedesi e cantando in inglese, abbiamo una piccola distanza che ci rende più giocosi. Forse sono il freddo e le lunghe ore al buio, tempo a disposizione per fare musica.” Le ragioni strutturali del boom svedese non si esauriscono qui però. Sono celebri (anche se purtroppo un ricordo) le scuole di musica pubbliche finanziate dal governo, così come gli aiuti economici e pratici per gruppi ed etichette: “Ogni ragazzino in Svezia poteva imparare gratuitamente a suonare uno strumento, ma adesso la situazione sta cambiando, il nuovo governo non tiene molto in considerazione la cultura. Potere andare a lezioni di musica senza essere ricchi era una cosa fondamentale. Puoi sempre richiedere supporto governativo per tour e registrazioni, se sei bravo a compilare quei moduli, ma quasi tutti quelli che diventano famosi di solito fanno da soli.”
E alla fine, proprio come nei soliti Stati Uniti e Regno Unito, il sistema si autoalimenta grazie all'esempio di chi è venuto prima, e allo stimolo che produce: “Abbiamo molti ottimi sciatori e molti ottimi giocatori di hockey, e quando vedi altri che fanno bene una cosa ti viene voglia di farla anche tu. Allo stesso modo, abbiamo visto molti musicisti svedesi fare grande musica, e ne siamo stati ispirati. É come un'onda, una valanga. Di chi parlo? Per me tutto comincia con gli Abba, ovviamente, e continua con i Roxette, i Cardigans, gli Hives. Fino all'indie-rock contemporaneo. Fra i tanti mi piacciono Jenny Wilson, che sta uscendo adesso con il suo secondo disco, e l'album di Karin Dreijer Andersson a nome Fever Ray. Sono sperimentali e hanno trovato una loro voce caratteristica, unica. Suonano fresche ma allo stesso tempo connesse con la storia. Mi fanno stare bene.”
Tornano anche molti dei nomi di cui sopra, e fra gli emergenti la segnalazione tocca a Thieves Like Us e Paper (“I primi suonano molto italo-disco, alla Giorgio Moroder. I secondi fanno una sorta di punk con i sintetizzatori”). Come band svedese preferita di tutti i tempi, John sceglie invece i da noi misconosciuti Bob Hund: “Suonano da quasi vent'anni, sono in sei e cantano in svedese. I loro primi tre o quattro album sono fantastici. Strani, originali, pazzi. Sono così felice quando li sento. Anche a voi in Italia potrebbero piacere.”
Lui, Bjorn (Yttling) e Peter (Morén) intanto si sono rifatti vivi con Living Thing, quinto titolo della loro discografia. Al successo di Writer's Block e della citata “Young Folks” avevano già risposto a fine 2008 con Seaside Rock, album completamente strumentale. E oggi rincarano la dose con dodici brani meno immediati del previsto, che cambiano ulteriormente direzione. Dal punto di vista sonoro soprattutto: “Abbiamo utilizzato molte fonti insolite, come ombrelli, coltelli da cucina, palloncini che scoppiano, fiammiferi. Suoni soprattutto acustici che abbiamo cercato di rendere elettronici, mentre gli strumenti elettronici sono stati registrati in modo analogico, per farli suonare più umani. É come una foresta tropicale insomma, ma con la corrente elettrica. É stato come chiudersi in laboratorio per trovare un nuovo antidoto, o un nuovo virus. Un nuovo suono misterioso e imprevedibile, più sexy e ballabile. Il disco va ascoltato un po' di volte, ma penso che in realtà sia più diretto e orecchiabile di Writer's Block.”
Si tratta comunque di una scelta coraggiosa, la strada sconosciuta invece di quella conosciuta (e remunerativa). Con tutta la pressione che un tormentone è capace di mettere a chi lo ha scritto, quando è il momento di proseguire. “Con Seaside Rock abbiamo dimostrato a noi stessi e agli altri di poter fare quello che ci sentiamo di fare, senza per forza scrivere un'altra hit con il fischio. Ci siamo levati di dosso quella pressione. Lavorare a Living Thing è stata quindi un'esperienza fresca, non ci sentivamo prigionieri del successo della canzone. Certo sarebbe fantastico avere un altro singolo come “Young Folks”, se hai vinto Wimbledon può essere divertente vincere anche l'Open d'Australia... ma non possiamo deciderlo noi, dipende dalla gente.” E buttandola sul tennis, mancava solo lui, la seduta è tolta.
(indietro) |