THE RACONTEURS


È quando entrano in scena delle costolette di maiale enormi - addentate senza perdere troppo tempo a darsi un tono dalla folla di giornalisti, musicisti, discografici, invitati e imbucati - che l’insieme acquista un senso, e pensi che sì, in fondo solo costolette di maiale enormi potevano essere il menu del party “segreto” messo su dalla XL per chiudere la prima uscita ufficiale dei Raconteurs. I pezzi cominciano quindi ad andare al loro posto.
Londra, piccola via di Soho a trenta passi contati dalla centralissima stazione di Oxford Circus. Un negozio di dischi prevalentemente consacrato a ogni cosa elettronica, sopra. Una vecchia fabbrica di vinile riconvertita a galleria e spazio artistico, sottoterra. Un tavolo con bicchieri di vino bianco e rosso e bottiglie di birra a disposizione degli astanti, che gradiscono. Suoni assai urbani dalla casse dell’impianto. Un’orchestra di trentacinque elementi con direttore, gli Alumiiinium, che suona solo pezzi dei White Stripes. E quel piccolo sprazzo di America arrosto che introduce a dovere uno dei gruppi dei quali più si parlerà nell’anno in corso: Jack White (se l’idea del porco è sua come crediamo, un genio) e l’amico cantautore power-pop Brendan Benson, due voci e due chitarre, e due penne. Più il bassista Jack Lawrence e il batterista Patrick Keeler, sezione ritmica dei rampanti Greenhornes.

Loro e chi li circonda tengono molto a sottolineare che di band vera si tratta, e non del solito espediente da rockstar per combattere la noia e contare mazzette di denaro contemporaneamente. Ma basta un ascolto veloce a Broken Boy Soldiers, l’album di debutto del quartetto in uscita a metà maggio, per convincersi che le raccomandazioni sono del tutto superflue. E questo tutto sommato ce lo aspettavamo, considerata la qualità media delle discografie coinvolte. Quella che stupisce è invece la naturalezza mista a determinazione con la quale i quattro affrontano l’avventura, e si mostrano band vera sul serio.
Fosse il puro divertissement che sulla carta potremmo immaginare, il disco sarebbe comunque un gran bel disco. Così, pare invece il frutto di un’esperienza che è soltanto all’inizio, di una band totalmente credibile in quanto tale. Che di questo passo, jammando e vivendo insieme, potrebbe addirittura arrivare ad oscurare in termini artistici e di popolarità quello che i quattro hanno fatto finora separatamente. Il che - non ce ne vogliano Craig Fox (indovinate un po’ chi è?) e i devoti del Benson solista - per gli altri tre potrebbe pure andare di lusso, ma per Jack White? E per la povera tenera Meg, dio la benedica?

Le razioni vegetariane (vaschette di plastica con falafel e verdure, molto più londinesi che sudiste) sono prevedibilmente poche e difficili da raggiungere, e finiscono subito. Ed è mentre Rumore cerca di capire se quella apparentemente intatta poggiata in cima ai rifiuti è intatta sul serio che dal palco arriva il groove duro e acido di Store Bought Bones, ed il lato alimentare viene definitivamente posticipato. Coadiuvati dal tastierista Dean Fertita, i quattro suonano potenti ed affiatati, calmi come dei veterani e felici come degli esordienti. La scaletta è breve, trattandosi di uno showcase più che di un concerto vero e proprio, e lo spazio è per le tracce più aggressive del repertorio: dall’ibrido Electric Prunes/Led Zeppelin di Broken Boy Soldier al pop duro di Hands, dal riffare quasi sabbathiano di Level al singolo strepitoso e tormentone assicurato Steady, as She Goes.
Ma c’è spazio anche per Together, probabile secondo singolo e ballata semiacustica che rappresenta al meglio le potenzialità del duo di songwriter, e il clima da prima metà dei ’70 americani che i Raconteurs evocano così bene. Che da oggi è definitivamente la cosa più cool in circolazione. White, in pantaloni a quadri e senza nulla di rosso addosso, dice “Stasera i drink li offro io” e “Ciao, siamo i Raconteurs da Nashville”, e in un attimo è purtroppo tutto finito. Nulla da fare per le cover  di Flamin’ Groovies (Headin’ for the Texas Border), Bowie versione Ziggy Stardust (It Ain’t Easy) e Love (A House Is Not a Motel, mannaggia) raccontate dalle cronache delle loro date ufficiali di pochi giorni prima a Liverpool, Newcastle, Glasgow e Londra. Tutte sold-out.
Nulla da fare anche per i vip che all’ultima delle quattro hanno presenziato, Kate Moss e Jude Law su tutti. Scorgiamo solo M.I.A., leggermente meno splendida che in fotografia e abbastanza interdetta dall’assalto all’arma bianca di un cronista provato dalle troppe birre a stomaco vuoto. Dicono ci sia anche Dizzee Rascal. Le costolette di maiale enormi avranno pure messo i pezzi al loro posto, ma gli unici musicisti notati sono due stelle rap-grime della Londra multirazziale. Si tratti di passione per il rock americano anni ’70 o più banale lealtà aziendale (escono su XL entrambi), è bello e un po’ buffo lo stesso.

L’appuntamento è per l’indomani in un hotel su Clerkenwell Road, lunga via sull’asse che unisce il centro città alle zone orientali. Loro siedono praticamente in vetrina, paiono riposati e di buon umore. White ha il bastone da lord che ha sfoggiato sul palco la sera prima, gli stessi pantaloni e lo stesso crocifisso al collo; Lawrence sembra prelevato di peso dai Blues Magoos o dai Chocolate Watchband, parla poco e con un tono di voce bassissimo (e suona pure nei consigliatissimi Blanche); Keeler è socievole e loquace; Benson è di una magrezza indicibile ed è l’unico con sembianze classiche da rocker malaticcio. Questi concerti inglesi, conviene sottolinearlo, sono i loro primi concerti in assoluto. Esatto, in assoluto.
La data alla Academy di Liverpool del 20 marzo 2006 è stata il debutto su un palco per i Raconteurs, e se la città sul Mersey è sicuramente un posto significativo per esordire, è strano che non ci sia stato davvero nulla in patria, fosse anche un riscaldamento nel pub sotto casa. Ci teniamo il dubbio e preferiamo sapere come sono andati, questi concerti. Come è stata la reazione della gente, e soprattutto come è stato per loro suonare insieme in pubblico per la prima volta. Dopo un “bene” corale e soddisfatto, prende la parola Keeler: “Sono andati bene, su tutti e due i fronti. La gente sta rispondendo con enorme entusiasmo, e sono stati importanti anche per noi. In un certo senso, ci hanno resi un gruppo. Così come fare dischi, una parte fondamentale dell’essere un gruppo è suonare dal vivo, io lo amo in modo speciale, e farlo con gli amici con i quali abbiamo formato questa band… è come se avesse solidificato tutto quanto.”
“La gente vuole vedere un nuovo gruppo - interviene White - e si aspetta che i Raconteurs siano un gruppo vero! Nessuno grida titoli di canzoni dei White Stripes, di Brendan o dei Greenhornes… speravamo succedesse (risate - ndr). Vogliono un nuovo gruppo, e sono contenti di trovarlo. Un gruppo vero, non il progetto parallelo di Jack White.” Il sussurro di Lawrence ribadisce il concetto e le preoccupazioni della vigilia: “Sta andando bene, molto bene. Siamo percepiti come un gruppo, è figo.” Un gruppo che presi i quattro componenti separatamente ha alle spalle centinaia di concerti, ma che di fatto è alle prime armi. Deve essere strano trovarsi a suonare un primo concerto… “Proprio così - continua Keeler – ma nello stesso tempo godiamo di tutti i vantaggi del cominciare da capo. L’esordio soprattutto è servito molto, ci ha migliorato molto come band. Ci siamo detti ‘eccoci qua’. Suoniamo da tanto tempo, abbiamo fatto un casino di concerti per conto nostro, ma è come se fosse stata la prima volta di nuovo, ci ha riportato a quella stessa eccitazione.” “Abbiamo sprecato così tanto tempo suonando in altri gruppi!” chiude Benson scherzando molto meno di quanto potrebbe sembrare, a riprova dell’entusiasmo vero che tutto l’affare Raconteurs emana.

Facciamo un piccolo riassunto? “Io e Brendan ci conosciamo dal 1998 - racconta White - e abbiamo più o meno sempre parlato di fare un gruppo insieme. Io, Jack e Patrick abbiamo lavorato insieme all’album di Loretta Lynn (l’ottimo Van Lear Rose, Interscope 2004 -ndr) e fatto diversi tour insieme, White Stripes e Greenhornes… sono stati tutti punti di partenza per riuscire a farlo, alla fine.” Ma è stata una collaborazione cresciuta un pezzo alla volta, tipo un ‘becchiamoci qualche volta per suonare insieme’ che diventa piano piano qualcosa di serio, oppure fin dall’inizio ci sono stati obbiettivi chiari e grossi? “È cominciata così: sono passato a casa di Brendan perché aveva la musica di Steady, as She Goes ma non il testo, e mi chiese di scriverne uno io. L’ho fatto e l’abbiamo finita.
Jack e Patrick capitarono a Detroit in quel periodo, e chiedemmo loro di registrarla insieme a noi. Non sapevano nemmeno a cosa sarebbe servita, dove sarebbe finita, se su un album solo di Brendan o cosa. Non avevamo piani predeterminati sul da farsi. Almeno non fino a quando l’album, con cinque o sei pezzi finiti, non ha preso la sua strada. Lì ci siamo detti ‘Wow! Dobbiamo andare in tour vero? Cosa facciamo adesso? Ci servono titoli per i pezzi!’. Non avevamo nemmeno i titoli per i pezzi.” Prende forma quindi il disco d’esordio, e White continua a raccontare: “Abbiamo cominciato a registrare a casa di Brendan, e Brendan stesso faceva da fonico. Solo che la stanza delle riprese è in soffitta, mentre registratore e banco di mixaggio sono al secondo piano, e il viavai stava diventando fastidioso: registri una cosa, poi vai su e giù mille volte per aggiustarla, per cambiare le cose che vanno cambiate… così abbiamo chiamato il fonico live dei White Stripes per farlo, mentre noi ce ne stavamo tutti in soffitta a registrare le basi. Le abbiamo registrate tutte dal vivo, per cominciare. Tutti i pezzi dell’album partono da una base registrata da noi quattro dal vivo. In seguito, io e Brendan abbiamo continuato a lavorarci, scrivendo e cantando i testi, sovraincidento synth, pianoforti e tutto il resto.”

Un lavoro di coppia, quindi, prima ancora che di gruppo. Due autori abituati a scrivere in solitudine, uno cantautore solista con nome e cognome, un altro metà di un gruppo che col passare degli anni si è rivelato di fatto come il suo grande, ambizioso progetto solista. Di solito, da un gruppo escono uno o più solisti. Qui succede il contrario, e due solisti si trovano per fare un gruppo insieme. Ancora White: “È stato grande, ha funzionato benissimo. Siamo fans l’uno dell’altro, ammiriamo e rispettiamo l’altro. Scrivere insieme è stato molto divertente e molto diverso dal solito per noi. E ha cementato l’idea che ci fosse qualcosa di davvero nuovo all’orizzonte. Ogni canzone ha avuto una genesi differente. Qualche volta io avevo la musica e lui il testo, qualche volta il contrario, qualche volta uno cantava all’altro quello che aveva e da lì partivamo.”
“Io ho portato la mia batteria!” scherza Keeler. Ma il contributo suo e di Lawrence è stato a quanto pare molto importante in sede di arrangiamento. “Potrei dire - continua il batterista - di essere il più grande fan di Brendan Benson e dei White Stripes al mondo! Ed è questa la ragione per cui sono nella band, ero interessato a quello che Jack e Brandan stavano facendo e avrebbero fatto. Ho sempre sperato che la cosa, di cui parlavamo da tempo, diventasse realtà; e vederla prendere forma è stato bellissimo.” “È stato interessante - aggiunge il bassista - vedere come la cosa avrebbe funzionato, come si è messa a funzionare. Ho solo detto loro ‘Ok ragazzi, andate’…”

La cosa funziona, effettivamente. Broken Boy Soldiers è fatto di dieci canzoni abbastazna diverse fra loro, ma pervase dalla vibrazione temporale di cui sopra, da quel feeling poco definibile di semplicità, inquietudine, calore e futuro incerto. “Non saprei - riflette White - qualcosa mi suona molto moderno, qualcos’altro più vecchio. Gran parte degli strumenti e dell’equipaggiamento usato, per esempio. Ma capisco cosa intendi dire. L’umore del disco, il suo mood suona così… forse perché un sacco di cose attuali non hanno mood, un sacco di musica che senti alla radio o su Mtv non ha mood, la registrazione è così pulita e digitale che non c’è mood. Anche per questo abbiamo registrato dal vivo. Ecco, questa è una cosa che non è stata migliorata dopo gli anni settanta, ma anzi è quasi scomparsa: il registrare dal vivo.”
Benson approfondisce il discorso, tirando in ballo il poco traducibile concetto di hook all’interno di una canzone e guardandolo nella sua accezione meno positiva. Letteralmente la parola sta per gancio, in pratica Brendan la usa per definire i trucchetti che autori e produttori infilano nei pezzi per renderli più istantaneamente memorizzabili. O più ruffiani. “La cosa bella del disco - spiega - è che non ci sono hooks. L’idea stessa di hook è venuta fuori negli ’80, o ’90, o chissà quando… se ascolti dischi dei ‘60 o dei ‘70 non ci sono hooks, ma solo grandi canzoni. L’intera canzone e un lungo, grosso, fottutissimo hook, capito? Certo, è vero che nel disco ci sono brani accattivanti, contagiosi (catchy, per chi si fosse appassionato al discorso - ndr), che ti ricordi subito. Ma io parlo di hooks palesemente messi lì apposta, intenzionali, con un unico scopo. E noi non abbiamo mai fatto in questo modo. Abbiamo provato a scrivere belle canzoni. Personalmente aspiro sempre a quello, a scrivere la canzone perfetta.”

Già che si parla di passato, sarebbe curioso sapere in che anno della storia del rock i nostri interlocutori vorrebbero essere riportati, con una macchina del tempo a disposizione. Parte Benson: “È dura, ci sono così tante cose buone… ma potrei andare nel 1974 o nel 1975 (visto? - ndr). Un sacco di cose fighe stavano succedendo, il rock stava cambiando molto, stava diventando un po’ più strano, più bizzarro. Il glam, il punk che stava covando… un epoca di cambiamento, eccitante.” Lawrence è sintetico come al solito, e se la ride (“Andrei indietro al 1962, così potrei rubare ai Beatles tutte le loro canzoni!”) mentre White è sintetico e basta, ma la sa lunga (“Sceglierei il 1954, a Memphis. Alle radici di qualcosa che stava per esplodere”). Diplomatico ma a ragione, infine, Keeler: “Sceglierei il presente, perché possiamo beneficiare della storia, guardare indietro e ascoltare un sacco di roba interessante. Il primo blues, il primo bluegrass, il folk… possiamo vedere come si sono sviluppati.”
Già che si parla di presente, allora, sarebbe curioso sapere che musica piace ai nostri interlocutori al momento. E i quattro si dimostrano eclettici il giusto, in bilico tra sopra e sottosuolo, saltando da Andrew Bird (Benson) a Antony And The Johnsons, Arctic Monkeys e Peechees (White). Keeler confessa di adorare i fantastici Dungen, e tra le risate degli altri di essersi recentemente appassionato ai Queens Of The Stone Age “un po’ in ritardo”. Lawrence racconta come una delle sue canzoni preferite, attualmente, sia Lullaby of the Leaves di Al Bowlly, cantante pop e swing popolarissimo in Gran Bretagna negli anni ’30. E come l’ultimo cd acquistato sia il nuovo degli Yeah Yeah Yeahs.

Resta poco tempo. Quanto basta per informarsi sulla denominazione del gruppo (White: “Ho letto un articolo su questo Mike Wallace, un giornalista televisivo americano, in cui veniva chiamato raconteur. Ho pensato che suonasse bene per un gruppo. Suonare e scrivere canzoni è come raccontare storie, e un raconteur è qualcuno bravo a raccontare storie. Ogni canzone è una storia, anche uno strumentale, e raccontarle è parte del lavoro del musicista itinerante. Che è quello che noi siamo”) e su un futuro prossimo che vede il 2006 interamente dedicato da tutti alla nuova band, ma senza abbandonare i rispettivi progetti e senza troppa paura dell’eventualità che questa esperienza li superi in grandezza ed importanza (Benson: “Spero che succeda!”). Il botto dell’ultimissimo minuto ci scoppia in tasca: della curva romanista che canta in coro il riff di Seven Nation Army Jack già sa, ed apprezza molto divertito. Se qualcuno volesse portarlo all’Olimpico la prossima volta, ci avverta per tempo.


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