The Promise Ring
Nothing Feels Good
(Jade Tree, 1997)
Le cose ci piace farle come una volta. Prima di ogni matrimonio, quindi, un fidanzamento. Durasse anche due settimane soltanto, la prassi va rispettata. E prima di ogni anello nuziale, quindi, un anello di fidanzamento. L'anello della promessa, lo chiamano a Milwaukee, Wisconsin e nel resto dell'Unione: The Promise Ring. A indossarlo sono concittadini di Fonzie con chiare origini mitteleuropee (Davey Von Bohlen, Jason Gnewikow, Dan Didier, Scott Beschta), ragazzi sensibili e semplici, che vengono dal punk e il punk stesso rivoluzionano con il sorriso sulla faccia. Gettando le basi di un genere che in seguito verrà chiamato emo, uscendone contemporaneamente come presenza unica e a sé stante.
Nothing Feels Good è il loro secondo album, ed è un rapido manualetto di grande canzone pop-rock chitarristica americana. Porta nei suoi solchi la poesia acerba degli esordi, i riferimenti testuali che altri ripeteranno alla nausea (la geografia, le autostrade, una certa vita made in Usa semplice, tradizionale ma non tradizionalista), la vena power-pop poi esplicitata dal successivo Very Emergency, il ripiego country e cantautorale dell'atto finale Wood/Water. Racconta la trepidazione dell'amore promesso e la malinconia di quello che chissà perché non funziona come dovrebbe (servisse una sola frase per raccontarveli, eccola: “I'm not as good as the interstates are/I can't take you that far”), definendo una stagione breve e di passaggio, splendida e precaria. Mentre i francobolli si preparavano a cedere il passo, e l'aria vibrava di possibilità. Formidabili quegli anni. The repeat forever moment:
A ventisette secondi dalla fine di Perfect Lines, quando restano solo la voce e la chitarra: “You never wrote in perfect lines/and I never wrote you perfect lines”. E quando l'aiutante automatico di Office spunta in basso a destra e dice: sembra che tu stia scrivendo una lettera, serve aiuto?
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