RIVA STARR
Non è facile trovare Stefano Miele, di questi tempi: I Was Drunk, tormentone house dal gusto balcanico con ospitata dei francesi Nôze, ha fatto il salto nel mercato pop, e anche qui da noi la si sente e la si balla un po' ovunque; il remix realizzato per Hey Hey di Dennis Ferrer è la prima scelta dei DJ di mezzo mondo, ed era “essential tune of the week” dal guru Pete Tong (BBC Radio) proprio nei giorni della Winter Music Conference di Miami; la Defected, una delle etichette dance più importanti al mondo, gli ha chiesto di mixare la sua compilation annuale dedicata proprio a quell'evento, crocevia del business mondiale per tutto quanto è clubbing. Sta diventando uno dei DJ più richiesti in circolazione, insomma, e anche la lista di chi vuole un remix si fa ogni giorno più lunga, Beth Ditto e Gossip compresi. Se aggiungiamo un album bello e vario come If Life Gives You Lemons, Make Lemonade, debutto della sua terza vita artistica (dopo un album come Madox, tre come Stefano Miele e svariati singoli e remix con entrambe le denominazioni) uscito per la Made To Play di Jesse Rose all'inizio dell'anno, siamo all'apice, per ora, di una carriera ormai decisamente lunga. Apice raggiunto però, come detto, lasciando l'Italia.

Quando e perchè hai lasciato Napoli per Londra?
Ero in una fase critica della mia vita e della mia carriera. Ho lavorato molti anni in Italia, ho realizzato cose importanti a Napoli, città abbastanza difficile. Ho fatto dischi, ho suonato davanti anche a migliaia di persone, da lì ho girato il mondo, ma ho notato che tutto si riazzerava sempre, non si costruiva niente. A un certo punto ho capito che se volevo vivere con la musica me ne dovevo andare. Nel giro di una settimana, d'accordo con la mia compagna, che è architetto e come me soffriva la situazione napoletana e italiana in generale, ci siamo spostati. Nel 2007, proprio mentre nasceva il progetto Riva Starr.

A Londra è più facile?
Se hai qualcosa da dire, Londra te la fa dire. Se hai qualcosa da dire in più degli altri, Londra te la fa dire ancora di più. C'è la gente giusta, c'è l'industria, la musica e il suo mercato non sono visti solo come intrattenimento, e quindi sminuiti, ma hanno anche valore culturale. In Italia questo succede sempre meno, come ha sempre meno valore culturale tutto quanto, purtroppo, perchè funziona il messaggio berlusconiano. È tutto ridotto ai minimi termini.

I primi tempi in Inghilterra?
Ho ricominciato da zero, con le serate nei pub a 50 sterline. Un mese prima stavo al Womb di Tokyo come Madox, con ben altri cachet... Mi sono messo a ricostruire tutto da lì, a fare decine di remix, a rompere il cazzo alla gente, a spingere il sound. Avrei anche potuto scegliere di non lavorare, stando fermo aspettando che uscisse qualche disco e arrivassero serate più grosse, ma mi serviva proprio una ristrutturazione musicale. Ho fatto una marea di after, ho fatto i pubbini... mi è servito come laboratorio per sviluppare il mio stile.

In cosa Riva Starr è diverso dalle tue esperienze precedenti?
Mi interessava fare 4/4. Anche lo stile di Madox è sempre stato abbastanza house, ma la differenza fondamentale è quella. Nei set stavo suonando sempre più cassa dritta, avevo difficoltà a fare un bel set di solo breakbeat, mentre arrivavano sempre più cose interessanti da Claude VonStroke e da Jesse Rose ad esempio, una house che mi era vicina, perchè pigliava dal soul e dall'hip hop, con idee strane, originali. Alla fine, il 90% della scaletta era fatto di queste cose e solo il 10% da breaks, e ho deciso di ufficializzare questo fatto cambiando nome. Da lì, c'è voluto un po' di tempo per assestarmi, come selezione e come produzione. Ho sviluppato Riva Starr nel giro di 3 anni, trovando il suono che più mi convinceva, spostandomi verso deep e tech-house dopo inizi più electro, fidget e bassline. La musica è anche evoluzione, non puoi fare la stessa cosa per una vita.

Ora suoni molto essenziale, minimale ma non minimal.
Funziona il solito detto, “less is more”. Con idee semplici e funzionali è più facile ottenere una maggiore dinamica... e impiego anche meno tempo a fare i pezzi! Tutti i fronzoli, tutte le cose inutili che la gente usa di solito per abbellire, spesso servono a coprire la mancanza di idee. Io cerco di andare direttamente al punto: se funzionano l'idea, il groove e l'edit, sono a posto. Idea, groove, edit. Sono le tre cose fondamentali, il resto può anche essere solo una cassa, un rullante e una voce. Prendi Blaue Moschee dei Die Vögel, che ho messo nella compilation per Defected. Ci sono solo una cassa, un basso in levare molto marcato e degli ottoni, e un edit da paura lungo 8 minuti. È uno dei pezzi più belli di quest'anno, quando lo metti in pista la gente impazzisce.

Meglio produrre o fare il DJ?
Sono attività strettamente collegate, una non può prescindere dall'altra. Mi piace molto l'idea di produrre e provare subito dopo in pista ciò che ho prodotto. Per un pezzo impiego dalle tre ore ai due giorni, spesso lavoro con il laptop mentre sono in giro, approfitto dei tempi morti. E continuo sempre a fare anche una marea di remix e edit bootleg da usare nelle serate. Ne ho appena fatto uno di Saint Germain, uno di Burnin' dei Daft Punk e uno di Black Betty di Nick Cave...

Come nasce l'amore per la musica?
Con la televisione. Quando ero piccolo, la musica dei cartoni e dei telefilm era roba coi controcoglioni, con gruppi funk pazzeschi dietro. Ancora oggi la sigla di Daitarn 3 è fantastica, o quella di Jeeg, con quel Moog... Cristina D'Avena ha rovinato tutto! Ho cominciato a comprare vinili alle medie, dopo la scuola invece di pranzare io e un amico andavamo in una radio locale, e mentre i dj di musica napoletana erano in pausa mettevamo i dischi dance che compravamo con i nostri risparmi. Ascoltavamo sempre Albertino su Radio Deejay, all'inizio passava cose molto interessanti. Mi piacevano anche le versioni nonsense di cose straniere, tipo C'è da spostare un macchina, e mi faceva impazzire anche il primo singolo di Jovanotti, Walking, ce l'ho sia su 7” che su 12”! Poi sono passato al rock progressivo, quindi sono caduto nel mare dell'hip hop e dell'electro di fine '70 e inizio '80, per finire alle cose più elettroniche: facevo un programma di drum'n'bass su Radio Italia Network, e da lì sono approdato ai breaks.

Il tuo album ha un'impronta molto globalista, quella dell'Europa dell'est è solo una delle varie suggestioni sonore...
Già come Stefano Miele ho fatto un album intitolato Glocalizm, nel 2006, in cui riprendevo anche suoni del sud italiano. La musica dei Balcani, come qualsiasi altra musica tradizionale, mi è sempre piaciuta. È naturale che la cosa si senta anche in If Life Gives You Lemons..., ma non sono un DJ balkan-house, anzi mi sto tenendo alla larga da quel tipo di cose. Mi stanno scrivendo un sacco di DJ del genere dicendomi che con I Was Drunk ho rivitalizzato la scena... mi fa molto piacere, l'avessi voluto fare apposta come Stefano Miele magari non ci sarei riuscito, ma non mi va di cavalcare l'onda. E infatti il secondo singolo è stato Dance Me, più giamaicano, più grime-house.

A Londra non sei l'unico: con il romano Solo e il bellunese Mowgli fate una piccola comunità di produttori house italiani...
Abbiamo cominciato insieme qui, io e Solo dividevamo lo studio fino a qualche tempo fa. Abbiamo stili un po' differenti, stiamo pigliando strade diverse, ed è bello, ognuno sta sviluppando il suo suono originale: Solo è più tribalotto, con questi campanellini che lo caratterizzano, e Mowgli sta tentando una via più mainstream, con sintetizzatori da big room. Ma siamo un gruppo forte, ci conosciamo bene, arriviamo tutti dalla stessa matrice.

Cosa ti manca di Napoli e dell'Italia?
Affetti, amici, atmosfera, posti. All'inizio ero più nostalgico e tentavo di tornare ogni due mesi, adesso meno. Però mi manca, e mi farebbe piacere un giorno tornare a vivere in Italia. Ma per il lavoro che faccio è difficile, mi dovrei scontrare con i soliti problemi del fare musica in Italia, per adesso non se ne parla.

Cosa non ti manca, invece?
Lo stile di vita avventuroso che c'è a Napoli, ci siamo spostati anche per questo, era diventato soffocante. E non mi manca la mentalità di certa gente, che continua a diventare sempre più gretta. Mi mancano tanto invece le persone culturalmente più aperte, con cui poter avere scambi, con cui poter crescere. Ma anche qua se ne incontrano di interessanti, e spesso vedo anche colleghi italiani quando vengono a suonare. L'ultimo è stato Vinicio Capossela: mi aveva cercato in passato, per mettere mano a una sua canzone, mi aveva tenuto mezz'ora al telefono raccontandomi mille storie, simpaticissimo. Ma i tempi erano troppo stretti e purtroppo non se ne fece nulla.

Vista da fuori: c'è speranza per l'Italia?
Il problema sono le istituzioni: se non si ufficializza il fatto che la musica è cultura, partendo anche da cose stupide come l'IVA sui dischi, non equiparata a quella sui libri, mi dici dove andiamo? È impossibile. Serve una politica di credibilità della musica. Tanta gente ha un talento immenso che viene limitato, sprecato e distrutto perchè così vanno le cose in Italia. Ma tanta gente la piglia seriamente, si fa il culo ogni giorno per viverci e fare cose in cui crede. Abbiamo sempre avuto un talento incredibile per la musica, ma sono momenti un po' bui...

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