SEATTLE SUPERSONICS
Due decenni di world domination: Sub Pop festeggia

Dal palco piccolo a sinistra, quello che il programmino pieghevole chiama that stage, ancora tardano a spegnersi gli ultimi lancinanti feedback dei Pissed Jeans. Da quello grande a destra, quello che il programmino pieghevole chiama this stage, iniziano a salire verso il cielo le incantevoli armonie a quattro voci dei Fleet Foxes. Sono le 16.40 del 12 luglio 2008. È un passaggio brevissimo, ma è l'istante perfetto, il momento che meglio definisce l'essenza della Sub Pop di oggi, l’attitudine che la guida. Spiegando incidentalmente anche cosa renda buono un festival, e perchè Rumore si trovi nello splendido Marymoor Park di Redmond, poche miglia ad est di Seattle, per i due giorni di festa che l'etichetta fondata da Bruce Pavitt e Jonathan Poneman si sta regalando in occasione dei 20 anni di attività. Già festeggiati all’alba del 2007 a dire il vero, quando sull’argomento sentimmo proprio Poneman. Ma è la data del primo aprile 1988, quando i due soci lasciano i rispettivi lavori, prendono possesso di un piccolo ufficio in centro e cominciano a fare sul serio, ad essere designata come ufficiale per i posteri. Venti anni dopo, la bandiera con il celebre logo sventola in cima allo Space Needle, il grattacielo dalla forma buffa simbolo della Città di Smeraldo. Se non è la consacrazione come terzo marchio da esportazione di Seattle dopo Microsoft e Starbucks, o la world domination profetizzata in mille pubblicità e comunicati stampa, poco ci manca.

Oltre al salto - che sulla carta pare triplo e nella realtà di questo evento, dei suoi organizzatori e del suo pubblico invece non lo è - fra i gruppi di cui sopra, le speranze più luminose per l’ala rumorosa e quella pacata del catalogo rispettivamente, sono stati diversi i momenti quasi altrettanto definitivi di un weekend che ha chiamato a raccolta una trentina di nomi targati Sub Pop.
Sam Beam/Iron And Wine che ripropone la sua versione acustica e rallentata di Such Great Heights dei Postal Service, successo (ad oggi, oltre undici milioni e mezzo di download gratuiti dal sito dell’etichetta) dentro un successo (Give up, album secondo solo a Bleach per numero di copie vendute) che tuttora simboleggia la rinascita della casa dopo i tempi duri di fine anni ’90.
I Mudhoney che chiudono un set stratosferico scatenando il finimondo con Hate the Police, ormai scippata a quei Dicks che la scrissero e pubblicarono nel 1980. I Mudhoney stessi - gruppo con più uscite (17) e simbolo vivente della Sub Pop - che suonano alle sei e mezza di sera sul palco piccolo, emblema di una scaletta ben poco gerarchica che riserva 40 minuti d’orologio a tutti, e mescola affermati ed emergenti senza badare a chi è headliner e chi no.
Bruce Pavitt - ormai semplice consulente della ditta, ritiratosi a vita famigliare su un’isola del Puget Sound, la meravigliosa baia che ospita l’area metropolitana di Seattle - che guarda sempre almeno metà concerto di ogni santo gruppo da sotto il palco, e scatta foto con la macchinetta digitale come uno qualsiasi. Lui che potrebbe stazionare su un trono di bambù nell’area Vip, a ricevere baciamano e congratulazioni per le centinaia di vite salvate. Lo fa lì invece: quasi di continuo la sua mano stringe quella di tipi rubizzi con lise magliette dei Soundgarden, coppie con lui in barba e camicia a quadri e lei in top e sandali, giovanotti imberbi con Screaming Life (titolo del primo 12” di Chris Cornell e soci) scritto a pennarello, errore e correzione compresi, sul retro della giacca militare.
Tutto intorno pare di stare a un picnic americano tipico. Solo che le famigliole con borsa termica, plaid e sedie da campeggio hanno tatuaggi e magliette dei Mudhoney, i bimbi trotterellano con quel logo appiccicato sul pannolino e sul palco suonano Constantines e No Age. E anche nell’area Vip è lo stesso, con freesbee che volano e barbecue che pompano. Ci sono tutti quelli che hanno lavorato per l’etichetta in questi due decenni, ci sono personaggi chiave nelle vicende del rock di Seattle: Chad Channing, piccoletto e capellone, primo batterista dei Nirvana; Kim Thayil e Matt Cameron dei Soundgarden; Jack Endino, storico tecnico del suono e produttore dietro la maggior parte dei classici della prima ora. Pare una riunione di compagni di liceo, e viene da chiedere a ciascuno di chi sia figlio, marito, moglie, amico. Mancano invece i simpatici imbucati che caratterizzano i backstage in Inghilterra, in Italia e in quei Paesi dove la musica – anche quella che non dovrebbe esserlo – spesso è prima fumo e poi arrosto, e se hai un pass fai bene attenzione a che tutti lo vedano prima di usarlo.
È un festival insomma dove contano soprattutto la musica e lo stare tranquilli, dove non scatta la gara a chi è più in voga e a chi si fa fotografare con il cappellino più storto o il pantalone più stretto, dove è piacevolissimo stare e tutti paiono dei regular totali in bermuda e maglietta intenti a godersi la vita. Pure troppo, in un certo senso: l’aria di pericolo imminente e di abbandono che si respirava nei dischi e ai concerti Sub Pop di un tempo è andata, pochi dei nomi nuovi hanno davvero trascinato il pubblico in quel modo, e dato l'impressione di poter cambiare le vite come quel primo tour europeo di Tad e Nirvana, come i Mudhoney del 1988, come le foto di Charles Peterson che documentavano quel mondo.
È cambiata la Sub Pop, è cambiata in gran parte la musica dei gruppi che pubblica, sono cambiati i tempi e siamo cambiati noi, a cui in fondo più di tutti tocca riconoscere e interpretare l’urgenza e la visione che un disco o un suono suggeriscono. Ma una cosa non è cambiata, e anzi forse è persino aumentata: la qualità media del catalogo, altissima. Fra quelli presenti qui al parco e quelli assenti (ogni momento ne vengono in mente di nuovi, a riprova di quanto detto: Shins, CSS, Thermals, Band Of Horses, Oxford Collapse, Go! Team, Handsome Furs, Brunettes, Chad VanGaalen, Jennifer Gentle. Più i Gutter Twins, che suonano però sabato allo Showbox. Più Sera Cahoone e Kelley Stolz, che hanno suonato giovedì nello Space Needle stesso. Più i Death Vessel, che hanno suonato venerdì da Neumo’s) non ci sono gruppi scarsi. Ce ne sono di meno interessanti o meno originali al limite, ma tutti fanno comunque la loro cosa in maniera perfetta, sicura, con una passione e una solidità rare.

Solo i No Age, dei quali avevamo apprezzato l’ottimo Nouns, deludono. Belle melodie di chiara discendenza Dinosaur Jr, che suonano però troppo nude ed elementari in mancanza dell’impatto necessario. La voce fatica ad emergere, lo spontaneismo noise caratteristico del duo di Los Angeles si rivela arma a doppio taglio, e si traduce in una certa fiacchezza generale. Al contrario, stupiscono i neozelandesi Ruby Suns sotto il sole micidiale di mezzogiorno. Anche loro in coppia (due batterie, più aggeggi e un basso che compare ogni tanto), ma per nulla a disagio su un palco enorme, inanellano una serie di canzoncine fra pop in bassa fedeltà e poliritmi dal sapore tribale che conquistano, così come le piacevoli atmosfere space-pop degli Helio Sequence, ennesimo duo.
Persi totalmente i Foals per concomitante intervista ai Green River, restano le nuove leve più promettenti a cui si è accennato in apertura.I Pissed Jeans, oltre ad avere un nome eccezionale, suonano una rovinosa miscela di tardi Black Flag, Scratch Acid, Tad e Born Against, con risvolti hard-rock ed approccio fra il malato e l’arrogante da freak di provincia, con il fucile carico sotto il sedile posteriore. Matt Korvette urla mezzo nudo mettendosi e togliendosi cose dalle braghe, Bradley Fry è un orso con la Gibson in fischio perenne. I Fleet Foxes hanno appena fatto uscire uno degli album dell’anno, e in quattro su cinque sviluppano intrecci vocali che sono magia pura, talvolta senza accompagnamento alcuno, altrimenti al servizio di un suono tanto arcaico (folk-rock psichedelico e cantautorato West Coast i riferimenti più prossimi) quanto freschissimo, che ferma il tempo. Roba che si ascolterebbe per ore, sdraiati all’ombra di queste conifere con chi ci pare. Momenti così rarefatti ed intimi che gli accenni di soundcheck dei Fluid sull’altro palco quasi hanno il sopravvento. Con spassoso botta e risposta di rullate fra i rispettivi batteristi a seguire.

Fra i nomi già consolidati, spicca innanzitutto quello dei citati Mudhoney in piena seconda giovinezza: ritmica potentissima, Steve Turner fragoroso e sempre più simile al Giancarlo Giannini versione Gennarino Carunchio di Travolti da un insolito destino…, Mark Arm in stato di grazia. Spiritato e tonicissimo (pulito ormai da anni, l’uomo ha comunque in curriculum ben quattro overdosi di eroina), il biondo guida i suoi attraverso una scaletta devastante che parte con tre pezzi dell’ultimo, eccellente The Lucky Ones. Roba che non sfigura, l’apocalittica title-track soprattutto, di fronte ai vecchi inni che seguono. Altrettanto coinvolgenti i Comets On Fire di Ben Chasny ed Ethan Miller, che rapiscono i presenti con un uragano di contorsioni acide ed assoli ululanti, lunghe avventure di lirismo psichedelico che culminano nella distesa incalzante dal sapore afro di Sour Smoke, capolavoro dell’ultimo album Avatar. Impegnati ad intervistare i Fleet Foxes, perdiamo quasi tutto il concerto dei Low. E se il finale è un’indicazione attendibile, lo rimpiangeremo a lungo: con poco fanno tantissimo, e sono intensi dalla prima all’ultima nota. Sunflower incanta come sempre, Breaker chiude dura e solenne con la chitarra elettrica al posto delle tastiere. Intensi e veri anche i Constantines, con la loro sentita unione di Springsteen e Fugazi e le ospitate di Julie Doiron degli Eric’s Trip e Tim Rutili dei Red Red Meat, quest’ultimo per una versione invero piuttosto blanda di Jumpin’ Jack Flash. Potentissimi i Kinski, un muro del suono di proporzioni epiche fatto di strutture semplici e riff granitici, e percorso da melodie quasi post-rock. Della nutrita pattuglia americana che occupa gran parte degli scaffali Sub Pop odierni, Iron And Wine è sicuramente il nome di punta, e quando si vede Sam Beam tenere testa in scioltezza e da solo - con acustica a tracolla e occhiali da sole appesi al camiciotto - al massiccio pubblico del sabato sera, se ne ha la conferma. Ironico, talentuoso e a suo agio anche in veste così essenziale. Grand Archives, Blitzen Trapper e Beachwood Sparks paiono invece esemplari del discorso fatto prima: non risultano particolarmente memorabili, ma sono piacevoli da ascoltare, e fanno quello che fanno in maniera impeccabile. Più interessanti, non foss’altro che per l’angelico e insolito soprano di Joel Thibodeau, sono parsi i Death Vessel, ancora però bisognosi di un bel rodaggio sul palco. Quello che non serve agli Obits, guidati da una vecchia volpe come Rick Froberg (Drive Like Jehu, Hot Snakes) e sintonizzati su un rock tirato e nervoso come da copione, con possibile uscita Sub Pop futura.
In chiusura di festival invece, pur penalizzati da suoni caotici e mal bilanciati (le tastiere di Spencer Krug, in particolare, hanno il doppio del volume del resto), i Wolf Parade alzano il voto già buono dato al loro recente At Mount Zoomer. Sul quale si basa essenzialmente la scaletta: belle le canzoni di Krug, ancor più quelle del chitarrista Dan Boeckner. Call it a Ritual, Language City, California Dreamer, An Animal in Your Care e persino il bestione da 11 minuti Kissing the Beehive risplendono, fra indie-rock dal tocco teatrale e ricordi glam bowiani. Al cabaret con chitarre dei Flight Of The Conchords, un vero caso da queste parti, preferiamo infine il suddetto show in città dei Gutter Twins insieme ai Brothers Of The Sonic Cloth del redivivo Tad Doyle. Il trasferimento è più lungo del previsto però, e la stanchezza batte più di un colpo: Tad facciamo solo in tempo a vederlo mentre ritira gli strumenti; con i Gemelli dell’immobile Lanegan e del piacione Dulli resistiamo purtroppo meno di quanto vorremmo, complice anche un cambio palco eterno.

E le riunioni? La più attesa era senza dubbio quella dei Green River, capostipiti della scena cittadina quando ancora grunge era un vocabolo come un altro. In inedita formazione a sei, con le chitarre di Steve Turner e del suo successore Bruce Fairweather a tenere testa a quella di uno Stone Gossard caldissimo, il gruppo è parso divertirsi un mondo mentre sparava bordate di malefico punk/hard primitivo. E ha chiuso con una feroce Ain’t Nothing to Do dei Dead Boys. La battuta migliore è come sempre di Mark Arm (presentando Leech: “Questa è una canzone scritta nel 1985 che i Melvins ci hanno rubato accreditandosela in puro stile Led Zeppelin, facendo così di noi i Willie Dixon del grunge. Ma adesso che siamo di nuovo insieme, con il potere legale di Pearl Jam e Sub Pop insieme, distruggeremo quei bastardi!”), che scorderà pure qualche parola qui e là, ma compensa in presenza e ne esce come trionfatore primo del festival. Meglio ancora, se possibile, avevano fatto il giorno prima i Seaweed, carichi a molla nonostante i girovita cresciuti, come se non avessero mai smesso di suonare. Un concentrato di varie epoche di punk melodico serio, già all’epoca rivolto tanto al passato (Hüsker Dü) quanto al futuro (Avail, Lifetime), che arriva come una ventata di freschezza. E altrettanto bene hanno fatto i vibranti ed originali Red Red Meat, con un eccezionale intreccio di batteria tradizionale e set di percussioni (tamburi, tamburelli, pezzi di metallo, taniche) a sostenere le canzoni ora elettriche ora acustiche di Tim Rutili, fra radici e poesia rock.
Assai in forma i Fluid - primo gruppo non locale messo sotto contratto da Pavitt e Poneman nel lontano 1988, vecchi pirati stoogesiani con sosia del Keith Richards attuale alla chitarra - e le glorie francesi Les Thugs, che da Neumo’s con i Death Vessel avevano suonato decisamente troppo (inclusi due bis di quattro pezzi ciascuno!), ma concentrati nel tempo limite del festival scaldano la folla a dovere con il loro punk melodico un po’ malinconico, a rotta di collo, quasi ipnotico nella sua ripetitività. Più sfilacciata del previsto l’esibizione degli Eric’s Trip, prima band canadese su Sub Pop: belle canzoni fra Dinosaur Jr, Sonic Youth e Neil Young, ma suoni non perfetti e prestazione altalenante e poco coinvolgente. Naif e basilari come sempre gli scozzesi Vaselines, alla loro prima esibizione americana di sempre: un viaggio alle radici del twee-pop più sincero, con Jesus Don't Want Me for a Sunbeam (che i Nirvana ripresero nel live MTV Unplugged in New York) a suonare come omaggio indiretto al grande fan Cobain. È l’unica apparizione del Grande Assente, ma la cosa non sembra suscitare particolari emozioni nel pubblico. Segno dei tempi anche questo?

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