Tutto quello che voglio è essere libero
Sky Saxon e i Seeds da Pushin’ Too Hard al sogno hippie
Ci aveva provato Darby Crash, a morire lo stesso giorno di un collega molto più famoso, andandoci solo vicino: lui il 7 dicembre del 1980, John Lennon il giorno dopo. Ci è riuscito invece Sky Saxon, passato a miglior vita lo scorso 25 giugno nelle stesse ore in cui si spegneva Michael Jackson (e Farrah Fawcett). Le cronache ufficiali avrebbero probabilmente ignorato i due anche in assenza di morti più eccellenti, il vecchio reduce degli anni ’60 ancora più del giovanissimo e problematico idolo punk andatosene all’apice del successo, ma per la vasta comunità rock è un grave lutto comunque.
Los Angeles, 1961. Gli inizi di carriera di chiunque hanno sempre un che di lievemente imbarazzante, o quantomeno di molto diverso da quello per cui si diventerà famosi. Chi riesce a immaginare il cantante dei Seeds, simbolo del punk psichedelico americano più riottoso e primitivo, mentre batte i palchi dei club di Hollywood cantando il doo-wop, con il nome di Little Richie Marsh e con numi tutelari come Neil Sedaka e Bobby Vee? Nato Richard Elvern Marsh a Salt Lake City nel 1937 - o nel 1945, o nel 1946, a seconda di chi firma la sua biografia - il Piccolo Richie esordisce con qualche singolo solista per etichette locali: il primo (Goodbye/Crying Inside My Heart) per la Ava, il secondo e il terzo per la Shepard. Poi passa alla Conquest, decide di chiamarsi Sky Saxon e pubblica altri due 45 giri accompagnato dai Soul Rockers e dagli Electra-Fires.
Degli Amoeba invece resta ai posteri solo una foto promozionale, nella quale però oltre a Sky si riconosce - almeno così garantisce il vate garage Greg Shaw in un vecchio numero di Who Put the Bomp - il chitarrista Jan Savage. È con lui che il cantante e bassista Sky forma nel 1965 i Seeds, completati da Rick Andridge al piano elettrico e Darryl Hooper alla batteria. Insieme, i quattro mettono a punto un suono originale, cattivo e affascinante destinato a lasciare il segno sul garage di quegli anni e non solo. Un suono che, concentrato nei due minuti e trentasei secondi di Pushin’ Too Hard, ha la prerogativa rara di definire i suoi tempi. È un inno di rabbia repressa costuito su due accordi, ritmica ossessiva, svisate soliste pazzoidi di chitarra e tasti. E un cantato lamentoso che ripete le sue poche righe di testo con insistenza, come una (I Can’t Get No) Satisfaction meno piaciona. Proprio Jagger è il riferimento vocale più prossimo a Saxon, ma il ruolo di semplice imitatore al quale molti lo relegano non centra il punto: senti Mick e il massimo che ti aspetti è che provi a buttarti la lingua in bocca, senti Sky e immagini la lama del coltello in tasca, pronta a brillare in un raptus di follia. Sembra di ascoltare dei bluesman in paranoia da acidi, dei teppisti di periferia che provano a fare gli hippy, i Doors aggregati a una gang di motociclisti. “Tutti i biker di San Diego pensavano che i Seeds fossero l’apocalisse, allora. Ricordo una coppia, Candy e Smacker, che non tolse il loro primo album dal giradischi per tre mesi filati”, dirà Lester Bangs.
Uscita su singolo prima nel marzo (intitolata You’re Pushing Too Hard) e poi nel giugno del 1966, Pushin’ Too Hard passa alla storia per la sua carica minimale e antagonista. Il testo, narra la leggenda, pare sia stato scritto di getto da Saxon in un paio di minuti, in un impeto di frustrazione, mentre aspettava che la sua fidanzata uscisse da un supermercato. Come accade per i classici, però, il privato diventa pubblico e il personale politico. Il messaggio può essere recepito in molti modi diversi, moltiplicandosi e arrivando ad assumere in breve tempo un carattere universale, a simboleggiare un malessere più ampio e indefinibile. Quanto può essere al posto giusto e al momento giusto una canzone con quel titolo e quel testo, negli Stati Uniti di metà anni ’60? Quattro figuri poco rassicuranti che cantano – in quel modo! – qualcosa come “Tutto quello che voglio è essere libero/Vivere la mia vita come mi pare/Tutto quello che voglio è divertirmi/Vivere la mia vita come se fosse appena cominciata/Ma tu mi pressi troppo, mi pressi troppo”. Parla di una fidanzata che lo stressa e che passa le ore al supermercato mentre lui aspetta fuori, ma è così bello e automatico pensare che parli della società, e pensare che tutta quella pressione prima o poi finirà per fare scoppiare baracca e burattini.
The Wild Angels di Roger Corman esce nello stesso anno, e lo scambio di battute fra il prete e l’Hell’s Angel Henry Fonda alla cerimonia funebre in onore del compare Bruce Dern, ucciso dalla polizia mentre scappava su una motocicletta rubata, suona incredibilmente simile. Nel senso e persino nei vocaboli. Se è una coincidenza, è una coincidenza pazzesca. “Non vogliamo nessuno che ci dica cosa fare! Non vogliamo nessuno che ci comandi a bacchetta (“pushing us around” – ndr)”, dice Fonda. “Ma dimmi allora, cos’è che volete?”, chiede il sacerdote. “Vogliamo essere liberi! Vogliamo essere liberi di… di fare quello che vogliamo! Vogliamo essere liberi di andare in giro. E vogliamo essere liberi di correre sulle nostre moto senza che ci rompiate le scatole. E vogliamo sballarci. E vogliamo divertirci! Ed è quello che faremo. Ci divertiremo. Faremo una festa!”, risponde Fonda dopo un attimo di smarrimento, in un crescendo di sicurezza e urla di approvazione dei suoi. È un dialogo celebre, campionato dai Mudhoney (In’n’Out of Grace) e dai Primal Scream (Loaded) fra gli altri. Sono rivendicazioni minime, quasi ridicole se sentite oggi. Non è ancora il tempo del Movimento, quella in scena è la ribellione pura e teneramente ingenua di mille complessi dai nomi simili, ma i concetti rimbombano comunque forte negli Stati Uniti di metà anni ’60. Perbenisti e capelloni devono ancora scontrarsi in campo aperto, ma già si guardano in cagnesco. In Vietnam già si muore.
Non è però Pushin’ Too Hard il primo singolo dei Seeds. Nell’estate del 1965 il quartetto si era presentato con Can’t Seem to Make You Mine, che sotto sembianze da ballata malinconica celava arrangiamenti già avanti per l’epoca, un piano elettrico solista che anticipava i Doors e un’inquietudine montante. È lei ad aprire The Seeds, album di debutto dell’aprile 1966. C’è Evil Hoodoo, potente scorribanda fuzz, e c’è l’inno proto-punk che li consegnerà alla storia, ovvio. Con Psychotic Reaction dei Count V, I Had Too Much to Dream (Last Night) degli Electric Prunes, You’re Gonna Miss Me dei 13th Floor Elevators e una manciata di altri, Pushin’ Too Hard è uno di quei pezzi che definiscono la propria epoca, come si è detto. Un simbolo del punk nordamericano degli anni ’60, non più solo rock’n’roll e non ancora solo psichedelia. Un modello anche per i suoi artefici, infine, che ne riproporranno senza vergogna i tratti fondanti in numerose altre canzoni, a cominciare proprio da questo stesso album: No Escape è lampante, almeno altre quattro devono molto, gli Stones fanno capolino sul resto. Ma chi non lo ha mai fatto, soprattutto in quegli anni? “Ispirarsi” ai successi del momento era la prassi, così come replicare i propri con minime variazioni e buttare nel mucchio qualche cover di classici rock’n’roll o blues. Anzi, gli undici episodi di The Seeds sono tutti autografi, così come gli otto del secondo album A Web of Sound.
Conviene battere il ferro finchè e caldo: Pushin’ Too Hard è salita fino al primo posto di varie classifiche locali (New York compresa) e al trentaseiesimo di quelle nazionali, le radio la suonano a ripetizione, i concerti sono un delirio, la popolarità del gruppo in ascesa verticale. Il disco esce solo cinque mesi dopo il suo predecessore, ma suona già notevolmente più maturo e avventuroso, ed è senza dubbio il vero classico nella discografia dei Seeds. L’organo acquista peso, Mr. Farmer apre minacciosa, Tripmaker è una bomba punk acida, la lenta A Faded Picture ha i Make-Up in embrione. Chiudono i 14’45” fra pop, sesso e ossessione di Up in Her Room, che prendono la moda del pezzo lunghissimo alla fine del secondo lato – lanciata dagli Stones, ancora loro, con Goin’ Home su Aftermath – e la portano negli Usa. Love (Revelation su Da Capo), Velvet Underground (Sister Ray su White Light/White Heat) e Iron Butterfly (In-A-Gadda-Da-Vida sull’album omonimo) fra gli altri seguiranno.
La vera svolta arriva però nel 1967, con l’esplosione del flower power e l’uscita di Future. Dai Semi cominciano a nascere fiori psichedelici fin dai titoli, e musica che colora lo stile ormai riconoscibile del gruppo con atmosfere più delicate e sognanti, sprazzi di pop barocco, strumenti orientali e arrangiamenti creativi. Nonostante A Thousand Shadows sia la copia di Pushin’ Too Hard di turno e Flower Lady and Her Assistant quella di Mr. Farmer, nonostante il cantato di Saxon (non ce ne voglia, da lassù) oscilli pericolosamente fra punto di forza e punto debole del tutto, l’album regge benone e i Seeds paiono lanciati. Suonano Two Fingers Pointed at You in una scena di Psych-Out, film hippie di musica e droga con Jack Nicholson, e il singolo inedito The Wind Blows Your Hair (stupendo, lo trovate sulla raccolta di rarità Fallin' Off the Edge) ne consolida la statura.
Ma dura poco, mancano le hit. Con una mossa che denota forse più confusione che eclettismo, il quarto album A Full Spoon of Seedy Blues (sempre 1967) è opera di una fantomatica Sky Saxon Blues Band ed è, se non si fosse capito, blues. Elettrico, certo, e pure ben fatto. Con note di copertina scritte da Muddy Waters, nientemeno. Ma dove sono finiti i ceffi di prima? Non lontano, a quanto pare. Veri o falsi che siano gli applausi e le urla, Raw & Alive - In Concert at Merlin's Music Box (1968) è un signor disco. Ormai fuori dal tempo nel suo riproporre le radici punk dei primi due album, ma carico di inediti di prim’ordine: le classiche Satisfy You e Night Time Girl, l’acida Forest Outside Your Door, la doorsiana 900 Million People Daily All Making Love. E l’abrasiva Gypsy Plays His Drums, nella quale si materializzano sinistri addirittura John Lydon e i PIL.
Non bastano però a evitare lo scioglimento della formazione originale, e l’inizio di una trafila che porterà prima alla denominazione Sky Saxon and the Seeds, e poi all’entrata del nostro nella setta religiosa Source Family sulle colline di Hollywood. Lì viene ribattezzato Sunlight, e partecipa anche ad alcune registrazioni della band psichedelica della comune, gli Yahowa 13 (per chi volesse approfondire c’è God and Hair, cofanetto di tredici cd curato da Sky stesso e uscito nel 1998).
Negli anni ’80 Sky ritorna di moda, grazie al revival di ogni cosa garage. Collabora con i Chesterfield Kings, pubblica dischi solisti o con band poco fortunate come The Starry Seeds Band, Sky Saxon & Firewall e King Arthur's Court. Riforma anche i Seeds un po’ di volte, una delle quali nel 1989 con la line-up originale, per un tour all’insegna della nostalgia insieme a Big Brother and the Holding Company, Love, Music Machine e Strawberry Alarm Clock. Nel 2003 ci riprova con Jan Savage, nel frattempo diventato - quando si dice il destino… - poliziotto del Los Angeles Police Department, ma ben presto resta di nuovo l’unico membro fondatore in formazione. Il 20 giugno del 2009 non si sente molto bene, ma decide di suonare lo stesso un breve set di classici dei Seeds all’Antone Club di Austin, città dove si è recentemente trasferito con la moglie Sabrina. È l’ultimo concerto di Little Richie.
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