
WE'RE JAMMIN'
Primo giorno di scuola con i Verdena
Sono le dieci e mezza di sera, il piazzale di periferia è freddo e desolato, con poche luci e un paio di furgoni parcheggiati. Mentre lo attraversiamo veloci, la ragazza vestita di nero e con i capelli color malva si avvicina, e mi dice qualcosa tipo “Guarda cosa ci tocca fare”. Non capisco se si tratti di tensione, disincanto un po' vezzoso o pura constatazione. Annuisco con qualche gemito di circostanza. È forse la distanza più lunga mai misurata fra camerini e palco di un club, penso, e tutta all'aperto in inverno non è certo il massimo. In effetti, dopo dieci anni di attività, sarà questo il genere di cose che vengono in mente appena prima di cominciare un concerto ai gruppi famosi. Ma lei non parla del tragitto lungo e freddo, probabilmente non se ne è nemmeno accorta. Parla proprio del concerto, del suo concerto. Andato tutto esaurito verso le nove di sera, con nove centinaia di persone stipate in sala che non aspettano altro. È il primo concerto del tour per l'uscita del nuovo album, e dall'apprensione che si respira in giro pare il primo in assoluto: “Ma non potevo andare a lavorare in banca?”
Avremmo dovuto capirlo. Le sei ore passate con i Verdena all'Hiroshima Mon Amour, storico club torinese, avrebbero dovuto chiarirci le idee sulla tensione strana e costruttiva che anima le giornate del trio di Bergamo – appena tornato sulle scene dopo tre anni di pausa con l'ottimo Requiem , recensito il mese scorso, e non più quartetto per l'abbandono del tastierista Fidel Fogaroli – e su come, nonostante l'indubbia esperienza accumulata, il palco possa fare ancora sempre un po' paura. Ce lo avevano anche detto, d'altronde: “Le prime date di un tour sono quasi sempre critiche in questo senso. Poi più vado avanti e più mi sembra che diventino critiche…” aveva esordito Luca Ferrari, batterista, dopo un attimo di silenzio generale. Invece del contrario? La tensione invece di sciogliersi aumenta? “Più che altro, tutti i tour sono sempre una cagata in mano , da quando si arriva al locale fino a quando non si esce” aveva commentato ridendo di gusto il fratello maggiore Alberto, cantante e chitarrista. “Anche se stiamo suonando in Germania con due persone a vederci.”
Sei ore istruttive e non prive di sorprese. Delle quali una spesa ad intervistare il gruppo, e due abbondanti spese ad osservare un soundcheck prevedibilmente eterno, vista l'occasione un po' da prova generale e vista la meticolosità che il gruppo mette in ogni aspetto della propria attività. Altre due circa passate fra chiacchiere sparse, spassose cover di classici pop-rock anglosassoni improvvisate in italiano alla chitarra acustica, cena. E una abbondante spesa ad osservare e a cercare di coadiuvare – molto probabilmente con esiti opposti alle intenzioni – i tre ragazzi, il fonico/tour manager, il tecnico delle chitarre e l'addetto stampa nella stesura della scaletta, parto che per usare un eufemismo potremmo definire travagliato.
Ma tornando al concerto, cosa è che ancora spaventa i Verdena, otto anni e centinaia di concerti dopo l'omonimo album di esordio che li catapultò nelle prime file del rock indipendente nazionale? “Non vogliamo deludere nessuno. La preoccupazione è di suonare bene, di fare uscire giusti i pezzi” dice Roberta Sammarelli, bassista e ragazza con capelli color malva e velleità bancarie di cui sopra. Di nuovo Luca: “Quando li facciamo bene è come se volassimo . Se li facciamo anche solo un attimo male, finisce che li facciamo veramente solo come esecuzione pura e semplice. Ma è bello quando volano, capito?” “Quando il concerto ce l'hai in mano”, aggiunge Alberto. “…e li parte la jam di trenta minuti!”
Ecco, la jam. Se c'è una cosa che non si fa fatica ad immaginare sono Luca, Alberto e Roberta nel loro pollaio riconvertito a sala prove e studio di registrazione che suonano, suonano e suonano. “Fin dall'inizio – racconta Roberta – c'è stato questo elemento, e non solo in sala prove. Fin dal primo disco, che durava quaranta minuti ma dal vivo c'era sempre almeno un quarto d'ora a concerto di jam. Una volta abbiamo raggiunto il limite, mezz'ora sempre girando intorno alla stessa nota! È bello quando questi momenti escono spontanei, quasi a caso…”. Il nuovo album, poi, pare nascere molto più dei suoi tre predecessori ( Verdena del 1999, Solo un grande sasso del 2001, Il suicidio del samurai del 2004) da questi momenti di creatività poco irreggimentata, per come suona ispido, poco prevedibile, libero. “Abbiamo sempre jammato parecchio, nella vita – Alberto si accorge mentre parla di quanto suoni bene come attacco… – ma in questi ultimi tre anni molto, molto di più. Con tantissima gente diversa, specialmente amici. A volte anche completamente incapaci, per cui eravamo costretti a jammare su una sola nota, o su cose comunque molto semplici… ed era quello che ci stimolava. Abbiamo registrato tutte le prove, riascoltandole sempre. Ogni volta veniva fuori un Dat con due ore di materiale registrato in presa diretta, compresa la voce guida in inglese maccheronico. Stavo su io tutta la notte ad ascoltare, scegliendo e mettendo insieme le cose migliori e più interessanti, facendo tantissime compilation su cd da far sentire agli altri. Col tempo riascoltavamo e cercavamo di capire cosa funzionava meglio. I pezzi sono stati scelti così. A me poi tutto il processo è servito per lavorare sui suoni, per fare delle prove, visto che ho fatto anche il fonico per questo disco. Ogni giorno sperimentavo posizioni diverse dei microfoni, per esempio. Perché tutto il disco è stato registrato proprio lì nel nostro pollaio.”
Si è trattato quindi di jam dalle quali trarre idee da sviluppare successivamente? “Esatto – continua Luca – magari partendo da un riff trovato in queste registrazioni e riprendendolo nelle prove seguenti. Ma abbiamo sempre provato i pezzi. A raffica, a manetta, tutto per bene. Non è stato un lavoro di jam tagliate e incollate al computer. È servito piuttosto come una sorta di preproduzione, come lavoro preliminare. Abbiamo usato anche strumenti strani, sintetizzatori, si sperimentava insomma. Poi dopo, vabbè, quando c'è da scrivere le canzoni per i Verdena l'impegno diventa maggiore. Ma queste cose hanno comunque influenzato il disco.”
Altra cosa interessante, dunque, che ci mostra una band piacevolmente più normale di quanto pensassimo. Oltre a cagarsi sotto prima di salire sul palco, i Verdena vanno regolarmente a provare come un qualunque gruppo di base . Pur costituendo un sodalizio longevo ed affermato, non sembrano persi dentro la routine a compartimenti stagni dei big, quella che adesso scriviamo i pezzi, adesso registriamo l'album, adesso proviamo per il tour, adesso andiamo in tour, adesso non ci vediamo per sei mesi. Non del tutto, perlomeno. Resta il piacere di andare a provare quelle tot sere a settimana come un gruppo qualunque… “Beh, sì – conferma Alberto – è l'unico piacere che c'è, insomma…”. L'unico, addirittura! E andare a suonare in giro, per esempio? “Certo, ovvio! Ci metteremo comunque un po' di date prima di essere tranquilli sul palco, di averne una certa padronanza.”
E dire che in questi tre anni i nostri non si sono risparmiati, trovando tra una jam e l'altra il tempo per varcare gli italici confini ed andare a suonare in giro per l'Europa, nei paesi dove la Universal ha pubblicato Il suicidio del samurai e si appresta a pubblicare Requiem : Francia, Germania, Austria, Svizzera. Un tuffo nell'ignoto che solo qualche anno fa pochissimi gruppi italiani si sentivano di fare. Sei una piccola star in patria, chi te lo fa fare di andare a ripartire da capo fuori, suonando per due persone in una cittadina della Germania orientale, prendendo qualche centinaio di euro e dovendo scaricare e caricare il furgone da solo tutti i giorni? Oggi va un po' meglio, ma il ritorno alle origini meets bagno di umiltà non potrebbe che fare del bene a tutti, nessuno escluso.
"È un'esperienza che abbiamo cercato noi – dice Luca – nata tempo fa dopo essere stati invitati a suonare ad un festival a Groningen, in Olanda. Ci siamo trovati benissimo, la gente era contenta e ci ha preso bene, cazzo! Bei locali, bella aria per suonare. La Germania in generale e Berlino in particolare sono assolutamente i posti che ricordiamo con maggior piacere, ma ho un bellissimo ricordo anche dell'ultima data in Svizzera, in un paesino in cima ai monti dove siamo arrivati per dei sentieri assurdi, rischiando di volare giù dalle scarpate col furgone. Nel primo tour abbiamo fatto quasi sempre da spalla a gruppi che facevano il pieno, tipo Dredg, Oceansize, Millionaire, She Wants Revenge. Nel secondo invece eravamo da soli, e lì è andata un po' peggio: meno gente, locali molto più piccoli… però bello, ci siamo divertiti un casino. E poi è più facile suonare dove la gente non ti conosce, secondo me.”
Riflessione sensata e molto indicativa di quanto detto ed osservato finora: è bello andare dove non sei nessuno. Non tanto per il rischio di abituarsi al successo e darlo per scontato, quanto per la maggiore tranquillità e naturalezza del tutto: “Suonare all'estero – argomenta Roberta – ti dà un sacco di cose in più rispetto al farlo di fronte a un pubblico che ti conosce. Suonare tutte canzoni che chi hai di fronte non conosce serve per capire cosa funziona e cosa meno. Vedi la reazione su ogni singolo pezzo, ed è una reazione meno mediata. Qui magari il pubblico le conosce tutte, ma reagisce a seconda delle sue preferenze.” Alberto tira le somme: “Qui è più difficile.”
All'estero, comunque, i dischi dei Verdena escono cantati in italiano come da noi. A conferma di come, con il mercato discografico e la rete ormai da tempo saturi di ogni genere di cosa, proprio il suono di una lingua esotica possa essere un punto a favore e non, come da vecchi dogmi molto anni '90, a sfavore. Chissà che Requiem non sortisca, per esempio, una specie di effetto Dungen sul pubblico estero. E non a caso citiamo Gustav Ejstes e soci, che con la loro splendida unione di caleidoscopico rock dal sapore antico e testi in svedese hanno conquistato seguaci un po' ovunque: in diversi momenti il nuovo lavoro del trio bergamasco li ricorda. Per suggestioni e suoni più che per riferimento diretto. Sessantatre minuti densi e coraggiosi in cui convivono psichedelia onirica e mazzate nirvaniane, malinconiche oasi acustiche e intermezzi strumentali d'ambiente, in un clima molto anni Settanta. Con un improbabile quanto riuscito connubio fra Led Zeppelin, Fu Manchu e Ritmo Tribale come Muori Delay a fare da singolo.
Tutto però mediamente più difficile rispetto al passato, come se il requiem del titolo (“Ci piace perché universale. Cercavamo un titolo corto, una parola comprensibile ovunque, né italiana né inglese. Poi andando in giro abbiamo visto questa scritta su un cimitero… ci piace vederlo scritto, Requiem . Non lo colleghiamo al suo significato, insomma”) fosse diretto a certi Verdena dal ritornello facile e dalle influenze troppo manifeste che già conoscevamo. Ma Luca non concorda: “Lo trovi più difficile? Io per niente. Anzi, secondo me è più facile degli altri. Lo trovo molto più terra terra, diciamo, non riesco a spiegare bene… tanti però la pensano come te. Eppure per me è più semplice, anche tecnicamente.” Ok, da un lato si sente che è un affare più viscerale, più istintivo. All'orecchio però suona più introverso e complesso, più maturo, rende alla distanza… “Lo dicono in molti. Sono cambiate parecchie cose – dice Alberto – ma secondo me il filone sotto c'è. Sono cambiate molte impostazioni. Seguivamo delle regole, io specialmente con la voce. Quest'anno non ho voluto seguirle. Mi sono liberato di queste cose che facevano parte del passato, ho provato a farne altre che non avevo mai fatto. Sennò non è tanto divertente, insomma. I testi sono un pochino migliorati rispetto ai primi tempi, ci ho speso sopra più tempo del solito. Non so, il suono della voce può ricordare i Verdena, il timbro vocale, ma ho cercato approcci diversi, linee vocali diverse, lunghe o cortissime: tutto ciò ha reso il lavoro sui testi in italiano più difficile. Le parole infatti sono cantate quasi fino alla fine in inglese abbastanza casuale, il passaggio all'italiano è l'ultima fase. Non sempre però i pezzi passano, a volte bisogna accantonarli perché non si trova nulla che funzioni. In inglese suona sempre molto meglio, anni luce meglio, ma in italiano diventa tutto un pochino più unico. È stato un gran problema, ma alla fine ce l'abbiamo fatta a finire ‘sto cazzo di disco!”
Ce l'hanno fatta da soli, e il fatto che la cosa si senta è uno dei punti di forza di Requiem . L'unico contributo esterno è arrivato da Mauro Pagani - membro fondatore della Premiata Forneria Marconi e storico collaboratore di Fabrizio De André, tra le altre cose – che insieme alla band ha prodotto (suonando anche harmonium, mellotron e piano) Trovami un modo semplice per uscirne ed Angie . Due ballate semiacustiche che non danno punti di riferimento e levano il fiato, e in cui nello stordimento riusciamo in qualche modo a udire echi lontani dei Love e di certi struggenti Blonde Redhead periodo Misery is a Butterfly . Accorgendoci solo dopo della bizzarria della faccenda. Viene da ridere solo a pensarci, e pare di stare in una caricatura di Rumore: “Speciale! Il sound dei terzetti formati da due fratelli maschi e una ragazza”. Ma vi preghiamo di verificare voi stessi (dando un ascolto anche a Canos, magari) e la chiudiamo lì.
Mauro Pagani, dicevamo. Ce lo racconta Alberto: “L'abbiamo conosciuto registrando Solo un grande sasso nel suo studio, Officine Meccaniche. Avevamo dieci pezzi acustici da sviluppare in qualche modo, e non sapevamo come andare avanti. Glieli abbiamo mandati, lui ne ha scelti tre, siamo andati a Milano e li abbiamo finiti. Sul cd ce ne sono solo due, perché non abbiamo avuto il tempo di finire il terzo, ma sarà incluso nella versione in vinile. Come è stato lavorare con lui? Più che altro, noi impariamo da queste persone, vediamo come si comportano, i movimenti che fanno, cosa dicono per tirarsi su di morale, per sbrigare velocemente una situazione critica… soprattutto io, non so se anche per loro due è così. Io vedo e imparo.”
Tra Pagani, un pezzo che si intitola come un classico degli Stones (Angie), uno che cita i Pink Floyd ( Non prendere l'acme, Eugenio ) e un altro che evoca cose piuttosto hippie ( Sotto prescrizione del dottor Huxley ), si respira un certo amore per il rock più classico e puro, o no? “Black Sabbath, Led Zeppelin… - parte Luca – sono sempre grupponi, cazzo! La mattina ti svegli e… Black Sabbath! Non è che stai lì a cercare il nuovo gruppo che è uscito l'anno scorso.” Gli fa eco il fratello: “È l'origine, è come andare a bere alla sorgente, quella che c'è adesso è tutta acqua sporca. La pazzia era fondamentale ai tempi. Ci credevano tutti, nell'essere pazzi.”
Sono le dieci e mezza di sera, e attraversato il cortile di Hiroshima entriamo. Pochi minuti e il gruppo è su, suona potente e sfaccettato e lo diremmo quasi a suo agio, nonostante tutto. La scaletta alla fine si è riusciti a farla con otto pezzi da Requiem , tre dal primo disco (ma non Valvonauta , successo che sembra oramai lontano un paio di vite), uno dal secondo ( Spaceman ), tre dal terzo (a Mina è affidata l'apertura dello show), due da due EP diversi ( Stenuo e Mu ) e altre due dalle versioni in vinile degli album ( Il tramonto degli stupidi e Non è , quest'ultima la terza collaborazione con Pagani di cui sopra). Scaletta difficile pure lei, volendo: pochi singoli, tante rarità nascoste tra le pieghe della discografia ufficiale del trio. Ma i novecento non se ne curano, cantano quando possono oppure ascoltano con attenzione, e apprezzano come se aspettassero il ritorno dei Verdena da molto tempo. Se non è un piccolo trionfo insomma, poco ci manca. Ma non è proprio densa di euforia l'aria intorno al furgone. C'è una tranquilla soddisfazione, quella sì, e c'è il relax che ti permetti quando il grosso è fatto. Roberta racconta di avere avuto le dita rigide per i primi quattro o cinque pezzi, data la poca abitudine a suonare dal vivo degli ultimi tempi. Alberto, nel camerino, ci dice che “è andata bene. Mi aspettavo peggio, vista la tensione. Poteva andare sicuramente meglio, ma di sicuro è andata meglio di come pensavo. È importante avere in mano la situazione, e non ce l'avevamo del tutto. Era lì che sfuggiva, sfuggiva…”.
Non scattano le pagelle, i ripetuti “che schifo” e “che merda” ai quali i tre ci avevano scherzosamente preparato in anticipo. Forse è la presenza di Rumore, ma la tensione sfocia in una concentrazione estrema e ininterrotta, più che in nervosismo puro e rivolto all'esterno. Alberto conferma quanto ogni concerto sia un po' come il primo (“Esatto. È un turbine”), e commenta la scelta di molte canzoni meno conosciute: “Il fatto è che abbiamo sempre fatto un sacco dei bei pezzi, fuori dagli album. Lì abbiamo sempre messo le cose più pop, perché ci sembrava giusto così, tenendo fuori le canzoni un pochino più interessanti. Non so perché, forse avevamo paura di usarle, non so che cazzo era… sta di fatto però che questi pezzi rimanevano sempre fuori e finivano sui vinili o sugli EP. Riascoltandoli però ci diciamo ‘Bello, questo, cazzo!' e ci viene voglia di suonarli dal vivo.” Il maggiore dei due Ferrari è anche colpito dall'atteggiamento del pubblico odierno: “Era più silenzioso del solito, mi fa piacere. Tu ti sbatti, e sentire gente che parla sotto le canzoni acustiche, solo perché sono acustiche e sembra che per questo abbiano meno importanza, non è molto bello. Invece c'è stato rispetto, mi è piaciuto. I pezzi nuovi pure sono piaciuti… erano stati accolti peggio quelli de Il suicidio del samurai , quando avevamo suonato qui l'ultima volta. Era stato diverso, era stato più duro, ero uscito un po' male dal palco quella volta. La gente parlava parecchio. L'obbiettivo è fare uno spettacolo, alla fine, e se il pubblico sta zitto vuol dire che lo stai facendo.”
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